Traduzioni un tanto al chilo
Di Chiara
La triste storia che voglio raccontarvi oggi risale a qualche anno fa, quando ho deciso di ricominciare a tradurre a tempo pieno da freelance (ho usato “tradurre” e “tempo pieno” nella stessa frase, non sentite le grasse risate del pubblico in sottofondo?). Completamente a digiuno di qualsiasi nozione di personal branding, self-marketing e soprattutto senza alcuna attenta pianificazione preliminare, la prima cosa che ho fatto è stata sbattermi come una carpa nello stagno: ho scritto a tutti quelli che conoscevo, ottenendone feedback pressoché pari allo zero, e mi sono registrata a settecento miliardi di comunità virtuali per liberi professionisti dell’editoria e della comunicazione, le cui inutili notifiche a distanza di anni ancora intasano la mia webmail. Sapete tutti come funzionano questi gironi infernali? Se non lo sapete ve lo spiego io: tu ti iscrivi, carichi il tuo curriculum e da lì in poi ricevi le offerte di lavoro via posta elettronica. Su alcuni puoi anche prendere parte ai forum di discussione e, almeno per quel che riguarda i traduttori, consultare liberamente i glossari online disponibili per le varie specializzazioni. Personalmente, nessuno dei lavori che mi sono procacciata finora arriva da lì (per quanto tra i colleghi che conosco ce ne siano un paio che hanno ottenuto attraverso siti come ProZ, per esempio, un contatto poi sviluppatosi indipendentemente). Tanto per cominciare, per sottoporre il tuo preventivo devi avere nella maggior parte dei casi un account Premium a pagamento, e in generale la scelta spesso si riduce a una lotta al ribasso in cui chi chiede meno vince, a scapito della qualità (my 2 cents, ovviamente).
Comunque, com’è come non è, una volta conquistato l’invidiabile primato di “donna il cui curriculum è presente su più siti web e comunità virtuali al mondo”, un bel giorno mi è arrivata, direttamente sulla mia posta personale di povera disperata, una mail con elettrizzante Oggetto: “Recruitment”. Il mittente era un’agenzia di traduzioni, o meglio un LSP (Language Services Provider) estero. Vi riassumo in breve il contenuto del messaggio: quest’azienda – la “migliore” (!!!) disponibile online – forniva traduzioni da e per oltre 80 lingue, con certificazione di qualità ISO:12345ealtreduemilacifrehetantochilosachevuoldire, e aveva “ideato” e sviluppato un software per la gestione in automatico delle richieste di traduzione ed editing da parte delle aziende di tutto il mondo. La notizia più pazzesca, in tutto questo, era però che pur potendo contare su un database di oltre 5000 linguisti esperti in ogni possibile ambito dello scibile umano voleva ME! Mi sarebbe bastato scaricare e installare il software miracoloso, selezionare la mia combinazione linguistica e i campi del sapere in cui mi sentivo più ferrata, completare una breve prova di traduzione online e una volta “accettata” avrei ricevuto in tempo reale le mail di notifica con le commesse che facevano al caso mio. Quasi dimenticavo, parte fondamentale: il compenso. La tariffa era – spero di ricordare male ma non credo – 0,03 centesimi a parola. Da totale sprovveduta che si era sempre occupata di traduzione editoriale e non aveva idea del costo di una traduzione tecnica, abbozzai un calcolo assurdo e totalmente scentrato rapportando il totale delle parole al prezzo di una cartella (lo sbagliai credo, peraltro) e conclusi che la cifra era tutto sommato dignitosa (state calmi: oggi so che era semplicemente scandalosa, ça va sans dire). I soldi per i lavori effettuati mi sarebbero arrivati all’inizio del mese successivo a quando li avevo svolti direttamente sul mio account PayPal. Comodo, no?
A quel punto – cuoricino, io sono una che fantastica molto, l’ho ribadito più volte – già immaginavo un moltiplicarsi esponenziale dei miei introiti. No davvero, c’è bisogno di chiederselo? Ovviamente sarei stata la più veloce, la più affidabile, la più scrupolosa… l’Harry Potter della traduzione tecnica 2.0. E qui casca l’asino, perché il procedimento esatto era in realtà questo: una volta loggata sul sistema, le istruzioni erano di visionare il materiale relativo alla commessa, appurare se eri in grado di gestirla e quindi cliccare su “Available for the task” e attendere l’assegnazione. C’era anche un messaggio minatorio con tanto di asterisco rosso, del tipo “Mi raccomando, eh: guardatevi bene i documenti perché poi il project manager lo sa quanto ci avete messo a cliccare, e se si accorge che non l’avete spulciato ahiahiahi, non ve lo assegna!”. Macché. La verità è che nei cinque/sei mesi in cui ci ho provato – stando connessa tutto il giorno, a un certo punto iniziando a cliccare in tempi sempre più brevi, anche prima dell’arrivo delle mail di notifica, senza guardare il materiale – non ho beccato l’ombra di un lavoro. C’era sempre qualcuno che se lo aggiudicava prima, nell’istante esatto in cui veniva inserito (visionando accuratamente le risorse di partenza? Verificando di essere in grado di svolgerlo? Boh, ho i miei dubbi). E accettando di lavorare a quelle condizioni.
Da questa disavventura e da esperienze successive sono giunta, nel tempo, ad alcune conclusioni.
Punto primo (lo so, la scoperta dell’acqua calda): ognuno deve fare il suo. Se sei una traduttrice editoriale, a meno che non senti chi già lo fa, non ti procuri le competenze necessarie, non ti fai un’idea dei compensi che puoi ritenere equi, non ti butti nelle traduzioni tecniche. Realtà come quella in cui sono incappata io verosimilmente prosperano sull’ignoranza, anche di chi è in buona fede.
Punto secondo: le agenzie di traduzione veramente valide, probabilmente, non hanno più di cinquemila traduttori nel proprio database, men che meno specializzati in ogni ambito dello scibile umano. Lavorano con pochi fornitori, che ne hanno guadagnato la fiducia grazie alla professionalità del loro lavoro. E li pagano il giusto.
Terzo e ultimo punto, ma questa è più che altro una domanda che mi faccio e vi faccio, e sarei grata a chi, sapendone di più, volesse darmi lumi in merito. Ok per il sistema di macellazione di un povero suino ben pasciuto, ok per la costruzione di macchinari e per tutte le attività in cui possono esistere un metodo e degli standard specifici per valutare la qualità di un processo, ma la certificazione ISO, corredata da cifre altisonanti, è applicabile a un ambito volatile e soggettivo come la traduzione? Esiste un ISO del tradurre e dello scrivere?
Postilla per i sanguinari paladini del giusto compenso (che oggi peraltro mi contano tra le loro fila): prendete questa storia – della cui pochezza mi rendo conto – con l’indulgenza che si deve a un qualcosa che in fondo non si è mai concretizzato nella realtà. È un po’ come essere sposata e però sognare di accoppiarsi selvaggiamente con Hugh Jackman: non è tradimento, giusto?
Credits: L’immagine del post è stata scattata ad hoc da Chiara, e secondo noi rende bene il senso di tutta questa storia. A proposito, secondo voi cosa c’è scritto a monitor? FARE o FAKE? Bicchiere mezzo pieno o bicchiere mezzo vuoto?