Nicola Gardini: amare le lingue è amare un dio imperfetto

Nicola Gardini è insegnante, scrittore, pittore, poeta, traduttore: tanti volti per una grande passione, quella per le parole impresse – su carta o su tela poco importa, come poco importa la lingua in cui sono scritte, dal latino all’inglese all’italiano al segno di penna e di colore a olio. Se con i suoi saggi sul latino ha ricordato a molti di noi perché abbiamo scelto gli studi classici (e non ce ne siamo mai pentiti), con la sua raccolta Tradurre è un bacio è riuscito ad ammantare di poesia entusiasmi, delusioni, routine e aspirazioni di noi traduttori.

In questa intervista ci racconta cosa significa per lui amare una lingua, tradurla e farne una lettura e una letteratura personale; perché chi ama le parole «le crede migliori di lui e perciò capaci di migliorarlo».

Nel suo saggio Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile racconta, tra molte altre cose, come si è innamorato del latino, facendo un po’ innamorare tutti noi lettori; inoltre confessa di amare molto anche l’inglese e, come si intuisce tra le righe, il cinese e senz’altro l’italiano. Cosa significa innamorarsi di una lingua? E trova che questa passione cambi nel tempo, come accade alle lunghe storie d’amore?

Ogni amore cambia nel tempo, si approfondisce, comprende di più l’altro. Così va anche per l’amore delle lingue. Perché poi qualcuno le ami e qualcuno no, questo è parte del mistero in cui tutti gli amori accadono. Una lingua è cosa di tutti. Eppure l’amore di una lingua è anche qualcosa di altamente privato ed esclusivo. Per quanti la conoscano e la pratichino, la lingua che un individuo si ritrova ad amare non riduce la sua capacità di contraccambio: è sempre tutta di quell’individuo amante. Ha qualcosa della divinità, totale in ogni momento, in quel singolo cuore, in quella singola preghiera. In fondo, avere amore per la lingua (o le lingue) è un modo di pregare. E chi o che cosa si prega? Il significato. Gli si chiede di ascoltarci, di assisterci, di illuminarci. Quante più lingue si conoscono, tanto più chiaramente questo chiedere dimostra di poggiare su un sogno. Il significato non è un assoluto. Amare le lingue è amare un dio imperfetto, che ci insegna la sua imperfezione e al tempo stesso la sua vitale voglia di esprimersi attraverso noi, di affidare proprio a noi che lo invochiamo il compito della perfezione.

Nel libro scrive: «In verità, come fin da allora appresi, quando si studia una lingua […] è giusto andare ovunque la curiosità ci ispiri di andare, seguire qualunque pista, fidarsi di qualunque svolta». Oltre alla curiosità e a una certa dose di incoscienza, cosa contraddistingue secondo lei gli amanti delle lingue in generale e i traduttori in particolare?

Gli amanti delle lingue – e i traduttori – sono individui molto diversi. Facciamo una prima grande ripartizione: alcuni girano tutto il tempo col dizionario sotto il braccio, controllano tutto, anche quello che già sanno di sapere; altri no, improvvisano, si fidano della loro memoria, tirano a indovinare, cercano il senso in altro che le singole parole. C’è il pedante e c’è il poeta. Tutti e due servono, e sarebbe giusto che ognuno avesse di questo e di quello. Amare è un’arte, cioè una disciplina, un impegno, che ha per obiettivo la bellezza. Chi ama le lingue, indipendentemente dalle sue inclinazioni e dalle sue capacità, studia la bellezza delle parole. E allora, rispetto a quelli che le parole le credono solo mezzi per la comunicazione dei bisogni materiali, si può dire che l’amante delle lingue è uno che fa attenzione alle parole, che le crede migliori di lui e perciò capaci di migliorarlo.

«Non mi piaceva fissare sulla pagina una versione. Sentivo che la scrittura serviva solo a legittimare l’imperfezione della resa, a fissare gli eventuali errori. Meglio affidare tutto alla mente. Lì la versione poteva migliorarsi, anzi, continuava a migliorarsi, il senso diventava parte della memoria, dissipandosi le vaghezze e riempiendosi i buchi». Oggi che è anche traduttore di professione e ha scritto un meraviglioso inno d’amore alla traduzione (Tradurre è un bacio), ha cambiato idea rispetto a quand’era uno studente liceale?

Non mi definirei traduttore di professione. Ho pubblicato, sì, diverse traduzioni di poesia, e penso molto al senso del tradurre. E non sto mai senza tradurre. A differenza dei traduttori professionisti, io traduco solo quello che scelgo io, solo quello che ha con me una qualche affinità. Oggi le traduzioni le scrivo, ecco la differenza principale. Tradurre oggi è per me, senz’altro, una delle forme della scrittura letteraria; della MIA scrittura letteraria.

 Il latino e il greco vengono spesso considerate lingue “morte”, ma lei nel libro afferma che questa definizione si basa su un pregiudizio, derivato da «un’errata concezione della vita delle lingue». Quanto ha contato il latino nello studio di altre lingue e nella sua formazione di traduttore? E ha riscontrato delle differenze tra imparare e tradurre una lingua antica e una lingua moderna?

Il latino che io pratico è quello letterario. È lingua scritta per definizione. Mi ha insegnato sicuramente a vedere la dimensione scritta anche delle lingue moderne che poi ho appreso e in cui ho anche vissuto buona parte della mia vita, come l’inglese e il francese. Per me, alla fine, non c’è nessuna differenza tra Tacito e Proust. Parlare le lingue è un’altra faccenda. Molti traduttori, si sa, non parlano o parlano a fatica le lingue che traducono. Non è assurdo: la scrittura è una dimensione a sé. È stile, quindi ricerca, costruzione, volontà di scoperta.

Che consiglio si sente di dare agli studenti divisi tra l’interesse per gli studi classici e le pressioni di una società sempre più orientata verso un’idea di “utilità pratica” degli studi? E a chi, forse ancor più coraggiosamente, decide di fare della traduzione il proprio mestiere?

Posso solo dire che gli studi classici, oltre alle conoscenze che danno, pongono quesiti fondamentali sulla vita umana, sulla storia, sulle società, sul linguaggio, sui sentimenti. Non c’è niente di pratico in questo. Ma neanche nello studio della biologia o della fisica c’è nulla di pratico. Il sapere non è mai pratico. Tecnologia e conoscenza (inclusa la scienza), non si possono confondere, considerare una cosa. O non si vede l’originalità nemmeno di un Einstein, e le profonde affinità che legano le ricerche degli umanisti e degli scienziati – fisici, chimici o biologi che siano. Il sapere è sempre immagine e visione prima che applicazione pratica, ed è retrospettivo, guarda verso le origini. Solo così può stabilire con qualche certezza la direzione del cammino che tutti– spirito, materia, universo – stiamo compiendo. Il traduttore non aderisce in fondo a un paradigma diverso da questo: ha di fronte un inizio, il testo da tradurre, e più in là un punto d’arrivo. Il paradigma qui, però, sembra capovolto: perché ignoto è il punto d’arrivo. La cautela, l’attenzione e l’impegno a capire, tuttavia, sono gli stessi dell’archeologo o del biologo che indaghino il percorso dell’umanità. Per questo mi piace pensarmi (anche) traduttore.

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