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Digitata manent: quanto conta l’italiano nella nostra “onlife”, secondo Vera Gheno

Non si può certo dire che Vera Gheno manchi di versatilità: sociolinguista, docente, traduttrice, membro della redazione di consulenza linguistica dell’Accademia della Crusca, della quale gestisce anche il profilo Twitter, partecipa instancabile a numerosissimi eventi in tutta Italia per approfondire i temi legati alla lingua mediata dal computer e all’influenza dei social sulla nostra vita. Come se non bastasse, è anche autrice di due fortunati libri editi da Franco Cesati: Guida pratica all’italiano scritto (senza diventare grammarnazi) (2016) e Social-Linguistica. Italiano e italiani dei social network (2017), due testi nati da esigenze diverse e ormai diventati imprescindibili per chiunque lavori con la lingua italiana nell’ecosistema iperconnesso di oggi… o semplicemente ami esprimersi con una buona dose di consapevolezza.

In questa intervista ci parla proprio delle sue due creature, che presenterà a TradPro – Una giornata di formazione e networking per traduttori e professionisti delle lingue, spiegandoci, con la consueta lucidità, quanto sia importante per noi traduttori conoscere a fondo l’italiano e usarlo come si deve, nel lavoro e nella nostra onlife.

Tutta la tua carriera ha al centro la lingua italiana e i suoi molteplici usi, dalle traduzioni letterarie alle sintesi di Twitter. Ci sveli come si è concretizzata l’idea di scrivere una Guida pratica all’italiano scritto e come hai affrontato questa tua prima esperienza da autrice?

Il libro nasce da una decina di anni di esperienza come docente di un laboratorio di italiano scritto per il corso di laurea di scienze umanistiche per la comunicazione all’università di Firenze. Non avevo, però, mai pensato di raccogliere i materiali del corso in alcun modo, se non fosse stato per la mia personale fata turchina: Silvia Columbano, allieva del mio corso molti anni addietro, diventata poi valente redattrice presso la casa editrice fiorentina Franco Cesati. È stata lei a contattarmi e a lanciare l’idea di pubblicare la Guida; io non ci ho messo molto ad accettare questa nuova sfida. E così è nato il mio primo libro, in cui ho condensato non solo quanto imparato dal confronto costante con generazioni di studenti, ma anche tutto quello che mi è passato sotto il naso gestendo il profilo Twitter dell’Accademia della Crusca in termini di convinzioni, stereotipi, fissazioni e bufale inerenti alla lingua.

La tua Guida ha una parentesi curiosa che recita Senza diventare grammarnazi. Puoi spiegarci chi sono i grammarnazi e perché è consigliabile non diventarlo?

I grammarnazi sono persone pedanti, che passano il tempo dando la caccia agli errori altrui, risultando in questo modo estremamente antipatiche. Normalmente non si tratta di soggetti con una conoscenza approfondita della lingua; piuttosto, si basano su nozioni scolastiche ormai “imbalsamate” (per esempio: “a me mi non si dice”; “le persone non si arrabbiano, quello lo fanno i cani. Le persone si adirano”), che non tengono conto della natura complessa e fluida della norma linguistica. In altre parole, la norma quasi mai è fatta di bianchi e di neri, ma molto più spesso è come una scala di infinite sfumature di grigio. Raramente si può dire che una cosa sia giusta o sbagliata, ma occorre invece considerarla assieme al suo contesto per capire se sia più o meno adatta a questo. Praticando la riflessione metacognitiva sulla lingua, si tende a comprendere meglio questa sua natura complessa, il suo essere un organismo vivo e mobile, e si passa dallo stadio di si dice/non si dice a quello di si dice in un certo caso/non si dice in un altro caso. Insomma: massima attenzione per l’uso della propria lingua, ma senza diventare maestrini rigidi e pedanti.

Secondo la tua esperienza, quanto coccoliamo la nostra lingua noi italiani e quanto, invece, la maltrattiamo? E pur essendone parlanti, la conosciamo davvero o per noi rimane ancora un mistero tutto da svelare?

La lingua ha alcuni scopi centrali: quello di descrivere con precisione la realtà che ci circonda e quello di supplire ai bisogni dei suoi parlanti. Come tutti i nativi di un certo idioma, anche noi italiani tendiamo a bistrattare la nostra lingua perché la diamo un po’ per scontata: in fondo, la parliamo sin dai primi anni della nostra vita… e invece è una competenza incredibile, quella del linguaggio: è anche una delle caratteristiche che più identificano il genere umano. Siamo gli unici animali sulla Terra in grado di usare un sistema di comunicazione così avanzato. È un peccato, quindi, usare la propria lingua madre in maniera sciatta e superficiale. Purtroppo, molto spesso è così. E gran parte di essa rimane, per la maggior parte dei parlanti, un vero mistero. Si pensi solo che una persona mediamente acculturata conosce qualche decina di migliaia di parole (ne usa attivamente molte meno), e che un dizionario come lo Zingarelli ne contiene circa 145.000, che tra l’altro sono solo una parte di tutto il lessico dell’italiano, che ammonta a diverse centinaia di migliaia di termini. Possiamo continuare a studiare la nostra lingua madre per tutta la vita, e comunque non arrivare mai a conoscerla interamente, anche solo a livello di lessico, dato che anche mentre la studiamo essa cambierà per adeguarsi ai nuovi bisogni dei suoi parlanti.

Il tuo secondo libro si intitola Social-linguistica. Italiano e italiani dei social media. Come e a che scopo è nato il desiderio di scrivere questo “diario di bordo” della tua esperienza sui social media?

Frequento la rete da vent’anni, social network compresi (in fondo, newsgroup e chatline non sono altro che dei proto-social, anche se all’epoca nessuno li chiamava ancora così). Stando da così tanto tempo in rete, ho avuto il privilegio di assistere a una serie di evoluzioni interessantissime: la popolarizzazione della comunicazione mediata, prima appannaggio di pochi fortunati che potevano permettersi un computer, la nascita di Facebook, i cambiamenti delle persone nella nuova società iperconnessa. Ho voluto scrivere Social-linguistica come ringraziamento, per condividere con altre persone le mie conoscenze, perché ritengo che alcune di queste possano essere utili a chiunque voglia utilizzare internet e i servizi resi disponibili da essa in maniera intelligente. I nativi cartacei spesso si sentono a disagio nello stare online, e quindi si privano di questa esperienza per paura di sbagliare, mentre i nativi digitali sovente non sono anche alfabetizzati digitali e commettono a loro volta un sacco di errori; io vorrei dare qualche dritta su come tutti possiamo vivere la nostra onlife, come la definisce Luciano Floridi, in maniera soddisfacente, sfatando anche tanti miti spaventosi che circondano il mondo della rete. Internet non fa affatto male, se usata bene. E tutti possiamo farci le competenze minime per poterla vivere in maniera costruttiva.Che nessuno si faccia spaventare dal titolo: è soprattutto un viaggio, a tratti divertente, tra i nostri tic linguistici e comunicativi in qualità di abitanti della rete.

Credi, come sostengono molti, che l’avvento dei social abbia semplicemente portato alla luce comportamenti e idee che prima rimanevano confinati nella stretta cerchia delle conoscenze, o che abbia realmente modificato il nostro modo di pensare, esprimerci e interagire?

Credo un po’ entrambe le cose. Sicuramente, se in rete esistono aggressività, discorsi di odio, bullismo, stalking e tutte le altre forme di comunicazione deragliata che vediamo quotidianamente, è perché ce le portiamo dietro dalla vita reale: non è che uno diventi xenofobo o misogino o violento magicamente davanti (o dietro) a uno schermo. Certo, è altrettanto vero che la mediatezza della comunicazione rende più complicate le cose. In parole povere, è senza dubbio più semplice odiare chi non vediamo in faccia, chi non abbiamo di fronte. Con l’effetto disinibente della rete occorre sicuramente fare i conti.

D’altro canto, la tecnologia ha cambiato il nostro modo di pensare, anzi, di conoscere la realtà. Che cosa comporta, in termini cognitivi, il fatto di avere virtualmente qualsiasi informazione a portata di mano, anzi, di click? Il problema non è più la reperibilità delle informazioni, quanto la voglia di fare quel click, e di farlo in modo ragionato. Una delle competenze che stanno diventando centrali in questi anni è quella di riuscire a riconoscere la validità di una fonte, di saper leggere i risultati che ci fornisce Google in maniera intelligente. Oggi leggiamo tanto, ma ipotesti (definizione di Elena Pistolesi) più che testi interi; scriviamo tanto, ma di nuovo soprattutto testi brevissimi, frammentari, piuttosto che testi lunghi; comunichiamo, anche, tanto – praticamente di continuo – ma sovente in maniera superficiale.

Ricordiamo una cosa, per me fondamentale: che la comunicazione “elettronica” debba per forza essere veloce e sciatta è un mito. Proprio perché si tratta in linea di massima di comunicazione scritta, in realtà nulla ci vieta di prenderci il tempo per rileggere quanto stiamo per pubblicare in rete. Ci possiamo permettere il lusso del minuto in più di riflessione su quello che abbiamo scritto, considerato anche che qualsiasi cosa immessa nella rete diventa difficilissima da eradicare. Mai come ora è vero che scripta manent. Anzi, digitata manent: un motivo valido per concedersi una velocissima rilettura.

Infine, proviamo a rubarti uno scoop: hai già in programma un terzo libro? O se mai dovessi metterlo in agenda, quale tema ti piacerebbe affrontare?

Al momento, sono impegnata in un progetto molto ambizioso con il mio “partner in crime” Bruno Mastroianni. Assieme a lui, reduce dalla stesura del volume “La disputa felice”stiamo lavorando sui temi dell’etica della comunicazione, che giudichiamo una delle questioni centrali di questi anni e degli anni a venire. I molti incontri che teniamo nelle scuole in giro per l’Italia ci stanno aiutando a capire la direzione nella quale andare con le nostre riflessioni.

Vera copiaSociolinguista specializzata in Comunicazione mediata dal computer, Vera Gheno svolge attività di docente universitaria ed è membro della redazione di consulenza linguistica dell’Accademia della Crusca, ente per il quale gestisce anche il profilo Twitter. Traduce letteratura dall’ungherese all’italiano da più di quindici anni ed è autrice di due saggi di linguistica: Guida pratica all’italiano scritto (senza diventare grammarnazi) (2016) e Social-Linguistica. Italiano e italiani dei social network (2017), entrambi per Franco Cesati Editore.

Si può sopprimere un cadavere? Risponde la Crusca

“Soppressione di cadavere” è una locuzione sentita in resoconti di cronaca nera, ma presente anche nel Codice penale italiano. Si può usare legittimamente o no?

Il verbo sopprimere deriva dal latino supprĭmere ‘trattenere, impedire’, composto di sub- ‘sotto’ e prĕmere ‘schiacciare, premere’ (cfr. DELI), da cui si è formato il sostantivo soppressione attestato in italiano già a partire dal XVI secolo. Nel linguaggio comune il verbo è usato principalmente in due differenti accezioni, ricche però di sfumature, che riprendiamo dal Devoto-Oli 2018:

Abolire ciò che era stato istituito o disposto precedentemente, annullare, abrogare, revocare: sopprimere una cattedra, un ufficio || Eliminare per ragioni di opportunità o convenienza, cancellare: sopprimere una clausola contrattuale; sopprimere le scene scabrose di un film || Impedire la pubblicazione di un testo o la realizzazione di un programma con un atto d’autorità: sopprimere una rivista, uno spettacolo.
Eliminare fisicamente, uccidere, ammazzare: sopprimere un animale malato; sopprimere un ostaggio, un testimone.
Esiste un terzo significato ormai in disuso e segnalato come arcaico di ‘calpestare, calcare’, semanticamente vicino alla derivazione latina. È in questa accezione che il verbo viene attestato per la prima volta nel XIV canto dell’Inferno dantesco (1313): lo spazzo era una rena arida e spessa | non d’altra foggia fatta che colei | che fu da’ piè di Caton già soppressa.

Consultando il GDLI, dizionario storico dell’italiano, troviamo inoltre sopprimere nel significato tecnico di ‘sottrarre un oggetto e in particolare un documento (senza distruggerlo, ma occultandolo o alterandolo) al previsto uso o destinazione (e un tale comportamento costituisce per lo più reato)’. La soppressione di corrispondenza è oggi un reato stabilito dall’articolo 616 del Codice penale italiano e consiste nel sottrarre e far sparire la corrispondenza diretta a terze persone.

Anche il sostantivo soppressione ha diverse accezioni derivate dal verbo e molti usi tecnici,oltre che nel diritto, in medicina, genetica, psicologia.

Nella banca dati Vocanet-LGI dell’ITTIG Istituto di Teoria e Tecniche dell’Informazione Giuridica, che raccoglie dati del lessico giuridico italiano a partire dal 960, troviamo occorrenze di sopprimere e soppressione già dal XVII secolo. Oggi sia il verbo sia il sostantivo si trovano con alta frequenza nel linguaggio giuridico in tutte le accezioni indicate nel Devoto-Oli 2018 (a eccezione dei significati tecnici di altre discipline e dell’arcaico ‘calpestare’ di uso dantesco):

Posta questa premessa, il provvedimento di rimessione deduce che la norma censurata ha disposto la soppressione degli enti pubblici economici statali denominati Stazioni Sperimentali per l’industria […](Corte Costituzionale, sentenza n. 86 del 2017).

[…] a seguito della modifica legislativa intervenuta nel 1974, è stata completamente soppressa la frase secondo cui «le diverse violazioni si considerano come un solo reato […] (Codice penale, art. 81, Concorso formale. Reato continuato).

Il concorso causale della condotta del pubblico ministero e della polizia, che decisero l’intervento con la forza per liberare ostaggi sequestrati da detenuti in rivolta, e lo organizzarono e diressero in modo caotico e inefficace, nel processo causale di soppressione degli ostaggi, legittima la concessione delle attenuanti generiche a favore dell’imputato di omicidio volontario (Corte d’Assise di Genova, sentenza 17 febbraio 1978).

Si sopprimono istituzioni, uffici e posizioni lavorative ma anche parole, articoli, commi e infine le festività e, quando purtroppo è il momento, gli animali; il contesto è quasi sempre sufficiente a suggerire e disambiguare i diversi significati, tutti impiegati, più o meno frequentemente, anche nel linguaggio comune.

A fianco delle accezioni più note esiste, esclusivamente nel linguaggio giuridico, la locuzione soppressione di cadavere, oggetto dei dubbi dei nostri lettori. Se consideriamo i significati comuni già visti del verbo sopprimere è naturale che l’espressione sopprimere un cadavere susciti qualche perplessità; l’ambiguità semantica è alta e, nel tentativo di ricostruire il senso partendo dai significati delle singole parole che compongono la locuzione, viene da chiedersi se sia mai possibile abrogare, revocare, impedire la pubblicazione o addirittura uccidere un cadavere. No, naturalmente. All’interno della locuzione, sopprimere e soppressione assumono un significato diverso. Soppressione di cadavere è propriamente un tecnicismo specifico del diritto che indica il ‘reato consistente nel celare un cadavere, una parte di esso o le sue ceneri’ (cfr. GRADIT), definito dall’articolo 411 del Codice penale:

Chiunque distrugge, sopprime o sottrae un cadavere, o una parte di esso, ovvero ne sottrae o disperde le ceneri, è punito con la reclusione da due a sette anni. La pena è aumentata se il fatto è commesso in cimiteri o in altri luoghi di sepoltura, di deposito o di custodia. Non costituisce reato la dispersione delle ceneri di cadavere autorizzata dall’ufficiale dello stato civile sulla base di espressa volontà del defunto.

Si verifica dunque una estensione del significato comune di sopprimere: da ‘eliminare, cancellare in parte, abrogare’ (un’istituzione, una parte di un testo ecc.) a ‘far sparire, nascondere, occultare’, nel caso specifico un cadavere; in un certo senso, così come si può “far sparire” un ente, una posizione lavorativa, un articolo di un testo di legge, lo stesso si può fare per un corpo. Tale significato esiste unicamente all’interno della locuzione tecnica, che va però considerata nella sua interezza, nell’insieme delle parole che la compongono. È un fenomeno frequente nel linguaggio giuridico e in generale in tutti i linguaggi specialistici. Semanticamente ci avviciniamo all’accezione di sopprimere trovata nel GDLI e che rimanda al reato di soppressione di corrispondenza visto prima o a quello di soppressione di stato, altra locuzione giuridica che denota il ‘reato commesso da chi occulta la nascita di un bambino non facendone denuncia allo stato civile’ (cfr. GRADIT), disciplinato dall’articolo 566 del Codice penale. Dunque, come vediamo, sopprimere e soppressione sono termini assai produttivi nel lessico giuridico e hanno dato vita a diversi tecnicismi specifici.

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Perché lo spagnolo ha la punteggiatura invertita (e perché dovrebbe abbandonarla)

Tutti hanno notato che le domande e le esclamazioni sono precedute da segni come ¿ e ¡, un uso poco diffuso nel resto del mondo e del resto in calo nella stessa Spagna. Forse è tempo di voltare pagina

26 Settembre 2018 – 05:54

Non è l’unica lingua a farlo, ma quasi. Lo spagnolo ha, tra le sue regole, quella di mettere punti esclamativi e di domanda (ma rovesciati) anche all’inizio della frase. Una frase del tipo Come stai? Diventerebbe, in italiano, ¿Come stai?, con effetti un po’ disorientanti, ma nemmeno troppo.

La regola è antica: vennero consigliati dalla Real Academia Española nel 1754 nel suo prontuario di ortografia del castigliano, ma entrarono nell’uso dopo molto tempo. E, a dire la verità, non sembra che abbiano intenzione di resistere ancora a lungo: sono sempre di meno le situazioni in cui le persone rinunciano alla punteggiatura invertita, a partire dalle chat sui social.

L’idea originaria, poi, è stata tradita fin dall’inizio. Nel 1668 il filosofo inglese John Wilkins aveva proposto di usare il segno esclamativo invertito (questo: ¡) per le frasi ironiche – a quanto sembra, nemmeno all’epoca chi leggeva riusciva sempre a coglierla – ma il suo suggerimento rimase inascoltato. Gli spagnoli decisero, nemmeno fosse un linguaggio di programmazione, di riprenderlo e metterlo all’inizio di frase esclamativa. Così come il punto di domanda rovesciato sarebbe stato a inizio di frase interrogativa.

Secondo alcuni renderebbe più semplice la lettura (“Così capisco prima che è una domanda, o un’esclamazione”, dicono), ma la verità è che si tratta di un orpello inutile. Tutti i lettori del mondo sono in grado di capire il senso e l’intonazione di una frase senza avere una marca iniziale. Tanto è vero che oltre allo spagnolo usano questi segni solo lingue che hanno legami culturali con la Spagna: cioè il Galiziano (ma hanno cambiato anche loro), il Catalano (con alcune eccezioni) e il Waray (che parlano nelle Filippine).

E poi gli spagnoli stessi, a partire da alcuni sudamericani come Pablo Neruda, si stanno via via allontanando dall’uso. Perché il progresso, arrivato alla fine anche laggiù, è anche questo.

Nicola Gardini: amare le lingue è amare un dio imperfetto

Nicola Gardini è insegnante, scrittore, pittore, poeta, traduttore: tanti volti per una grande passione, quella per le parole impresse – su carta o su tela poco importa, come poco importa la lingua in cui sono scritte, dal latino all’inglese all’italiano al segno di penna e di colore a olio. Se con i suoi saggi sul latino ha ricordato a molti di noi perché abbiamo scelto gli studi classici (e non ce ne siamo mai pentiti), con la sua raccolta Tradurre è un bacio è riuscito ad ammantare di poesia entusiasmi, delusioni, routine e aspirazioni di noi traduttori.

In questa intervista ci racconta cosa significa per lui amare una lingua, tradurla e farne una lettura e una letteratura personale; perché chi ama le parole «le crede migliori di lui e perciò capaci di migliorarlo».

Nel suo saggio Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile racconta, tra molte altre cose, come si è innamorato del latino, facendo un po’ innamorare tutti noi lettori; inoltre confessa di amare molto anche l’inglese e, come si intuisce tra le righe, il cinese e senz’altro l’italiano. Cosa significa innamorarsi di una lingua? E trova che questa passione cambi nel tempo, come accade alle lunghe storie d’amore?

Ogni amore cambia nel tempo, si approfondisce, comprende di più l’altro. Così va anche per l’amore delle lingue. Perché poi qualcuno le ami e qualcuno no, questo è parte del mistero in cui tutti gli amori accadono. Una lingua è cosa di tutti. Eppure l’amore di una lingua è anche qualcosa di altamente privato ed esclusivo. Per quanti la conoscano e la pratichino, la lingua che un individuo si ritrova ad amare non riduce la sua capacità di contraccambio: è sempre tutta di quell’individuo amante. Ha qualcosa della divinità, totale in ogni momento, in quel singolo cuore, in quella singola preghiera. In fondo, avere amore per la lingua (o le lingue) è un modo di pregare. E chi o che cosa si prega? Il significato. Gli si chiede di ascoltarci, di assisterci, di illuminarci. Quante più lingue si conoscono, tanto più chiaramente questo chiedere dimostra di poggiare su un sogno. Il significato non è un assoluto. Amare le lingue è amare un dio imperfetto, che ci insegna la sua imperfezione e al tempo stesso la sua vitale voglia di esprimersi attraverso noi, di affidare proprio a noi che lo invochiamo il compito della perfezione.

Nel libro scrive: «In verità, come fin da allora appresi, quando si studia una lingua […] è giusto andare ovunque la curiosità ci ispiri di andare, seguire qualunque pista, fidarsi di qualunque svolta». Oltre alla curiosità e a una certa dose di incoscienza, cosa contraddistingue secondo lei gli amanti delle lingue in generale e i traduttori in particolare?

Gli amanti delle lingue – e i traduttori – sono individui molto diversi. Facciamo una prima grande ripartizione: alcuni girano tutto il tempo col dizionario sotto il braccio, controllano tutto, anche quello che già sanno di sapere; altri no, improvvisano, si fidano della loro memoria, tirano a indovinare, cercano il senso in altro che le singole parole. C’è il pedante e c’è il poeta. Tutti e due servono, e sarebbe giusto che ognuno avesse di questo e di quello. Amare è un’arte, cioè una disciplina, un impegno, che ha per obiettivo la bellezza. Chi ama le lingue, indipendentemente dalle sue inclinazioni e dalle sue capacità, studia la bellezza delle parole. E allora, rispetto a quelli che le parole le credono solo mezzi per la comunicazione dei bisogni materiali, si può dire che l’amante delle lingue è uno che fa attenzione alle parole, che le crede migliori di lui e perciò capaci di migliorarlo.

«Non mi piaceva fissare sulla pagina una versione. Sentivo che la scrittura serviva solo a legittimare l’imperfezione della resa, a fissare gli eventuali errori. Meglio affidare tutto alla mente. Lì la versione poteva migliorarsi, anzi, continuava a migliorarsi, il senso diventava parte della memoria, dissipandosi le vaghezze e riempiendosi i buchi». Oggi che è anche traduttore di professione e ha scritto un meraviglioso inno d’amore alla traduzione (Tradurre è un bacio), ha cambiato idea rispetto a quand’era uno studente liceale?

Non mi definirei traduttore di professione. Ho pubblicato, sì, diverse traduzioni di poesia, e penso molto al senso del tradurre. E non sto mai senza tradurre. A differenza dei traduttori professionisti, io traduco solo quello che scelgo io, solo quello che ha con me una qualche affinità. Oggi le traduzioni le scrivo, ecco la differenza principale. Tradurre oggi è per me, senz’altro, una delle forme della scrittura letteraria; della MIA scrittura letteraria.

 Il latino e il greco vengono spesso considerate lingue “morte”, ma lei nel libro afferma che questa definizione si basa su un pregiudizio, derivato da «un’errata concezione della vita delle lingue». Quanto ha contato il latino nello studio di altre lingue e nella sua formazione di traduttore? E ha riscontrato delle differenze tra imparare e tradurre una lingua antica e una lingua moderna?

Il latino che io pratico è quello letterario. È lingua scritta per definizione. Mi ha insegnato sicuramente a vedere la dimensione scritta anche delle lingue moderne che poi ho appreso e in cui ho anche vissuto buona parte della mia vita, come l’inglese e il francese. Per me, alla fine, non c’è nessuna differenza tra Tacito e Proust. Parlare le lingue è un’altra faccenda. Molti traduttori, si sa, non parlano o parlano a fatica le lingue che traducono. Non è assurdo: la scrittura è una dimensione a sé. È stile, quindi ricerca, costruzione, volontà di scoperta.

Che consiglio si sente di dare agli studenti divisi tra l’interesse per gli studi classici e le pressioni di una società sempre più orientata verso un’idea di “utilità pratica” degli studi? E a chi, forse ancor più coraggiosamente, decide di fare della traduzione il proprio mestiere?

Posso solo dire che gli studi classici, oltre alle conoscenze che danno, pongono quesiti fondamentali sulla vita umana, sulla storia, sulle società, sul linguaggio, sui sentimenti. Non c’è niente di pratico in questo. Ma neanche nello studio della biologia o della fisica c’è nulla di pratico. Il sapere non è mai pratico. Tecnologia e conoscenza (inclusa la scienza), non si possono confondere, considerare una cosa. O non si vede l’originalità nemmeno di un Einstein, e le profonde affinità che legano le ricerche degli umanisti e degli scienziati – fisici, chimici o biologi che siano. Il sapere è sempre immagine e visione prima che applicazione pratica, ed è retrospettivo, guarda verso le origini. Solo così può stabilire con qualche certezza la direzione del cammino che tutti– spirito, materia, universo – stiamo compiendo. Il traduttore non aderisce in fondo a un paradigma diverso da questo: ha di fronte un inizio, il testo da tradurre, e più in là un punto d’arrivo. Il paradigma qui, però, sembra capovolto: perché ignoto è il punto d’arrivo. La cautela, l’attenzione e l’impegno a capire, tuttavia, sono gli stessi dell’archeologo o del biologo che indaghino il percorso dell’umanità. Per questo mi piace pensarmi (anche) traduttore.

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