Traduzione giurata: quando è necessaria e chi può effettuarla?

La traduzione giurata è una traduzione di un documento che mantiene il proprio valore legale anche nella propria versione tradottaIl moltiplicarsi di rapporti commerciali e giuridici a livello internazionale ha reso sempre più spesso necessaria la traduzione di documenti che possano fungere da riferimenti legali in due paesi contemporaneamente, quindi la traduzione giurata o asseverata è diventata praticamente indispensabile.

Creare traduzioni di qualità

Le traduzioni di qualità sono sempre richieste, e per raggiungere la massima qualità possibile i traduttori studiano e si allenano per anni, perfezionando la propria arte. Eppure, anche se ogni traduttore è un individuo a se, il processo di traduzione si articola in varie fasi ordinarie, e conoscendole anche il traduttore meno esperto può imparare un po’ più velocemente a padroneggiare l’arte della traduzione.
Senza ulteriori indugi diamo un’occhiata al procedimento tipico seguito da un traduttore professionista nel corso del suo lavoro.

1. I traduttori familiarizzano col materiale
Prima di passare al processo di traduzione devono conoscere l’argomento del lavoro e ciò che gli serve sapere per svolgerlo. In molti sensi ogni traduzione è unica, ed è importante sapere che tipo di difficoltà potreste trovarvi ad affrontare per poter fornire la migliore traduzione possibile. Inoltre durante questa fase i traduttori prendono appunti per accelerare il procedimento ed evitare complicazioni.

2. Valutate le capacità necessarie per la traduzione
Un’altra parte fondamentale della traduzione è la valutazione delle vostre capacità. Siete in grado di capire il materiale per intero mentre lo leggete? Riuscite a tradurre coerentemente le parti più difficili nella vostra mente? Siete sicuri di poter offrire la qualità migliore? Se avete forti dubbi o perplessità meglio rifiutare il lavoro prima di fare errori.

3. Fate ricerche accurate
Studiare il tema è importante, soprattutto  se avete a che fare con argomenti con cui non avete familiarità. Per esempio, potreste tradurre un testo sui computer senza avere nozioni di informatica, il che potrebbe creare problemi se il testo si basa su vari termini e descrizioni tecniche.

4. Credete nelle vostre capacità
Conoscere i propri limiti è importante, ma lo è anche credere in se stessi. A volte pochi ostacoli potrebbero convincervi  che quel lavoro non fa per voi. Abbiate fiducia, niente è intraducibile, e se darete il meglio di voi stessi sarete soddisfatti.

5. Fate un brutta copia
Fate una prima stesura invece di tuffarvi direttamente nel processo di traduzione, così da sapere che tipo di problemi potreste trovarvi di fronte. Una volta capito ciò che vi serve, potreste fare ulteriori ricerche o consultare uno specialista in materia. In ogni caso ciò che conta è il risultato finale , quindi prendetevi il tempo necessario.

6. Cercate di suonare naturali
Non c’è nulla di più frustrante che mettere tutto il proprio impegno in una traduzione  per poi rendersi conto che non suona. Si tratta di un problema comune nelle traduzioni, ma dovrete assicurarvi di evitarlo, altrimenti rischiate di intaccare la vostra reputazione e la vostra credibilità di traduttori.

7. Fate fluire il testo in modo lineare
Un altro punto è il flusso del testo. Potreste trovarvi in difficoltà quando una poesia tradotta non rima correttamente o non sembra avere il giusto “ritmo”. Dovrete quindi evitare di interrompere il flusso,  per quanto possibile, ed adattare il testo in modo che scorra con naturalezza.

8. Rileggete con cura
La rilettura è importante, soprattutto se non vi considerate ancora professionisti con esperienza. Valutate se inviare la traduzione ad un parlante madrelingua  per una rilettura e ascoltate attentamente ciò che avrà da dirvi.

9. Non smettete di migliorarvi
Non esistono confini quando si tratta di traduzioni. C’è sempre margine di crescita, e non importa come migliorerete le vostre capacità (traducendo come freelance per 2polyglot.com oppure facendo pratica senza la possibilità di trarne profitto) ogni metodo funziona quando si tratta di esercitarsi. Non abbiate paura di continuare a fare pratica, imparare e perfezionare l’arte della traduzione.

Speriamo che questi consigli vi siano utili in futuro, e se vi interessa anche solo lontanamente la traduzione continuate a leggerci.

Fonte: Articolo scritto da Vadim Dikman e pubblicato nel luglio 2016 sul Translation Journal

Traduzione a cura di:
Niccolò De Bernardis
Traduttore ENG>ITA – SWE>ITA

Techlash e altre parole “tossiche” del 2018

Toxic, parola dell’anno in inglese

Anche Oxford Living Dictionaries* ha annunciato la propria parola dell’anno per il 2018: è l’aggettivo toxic. È stata scelta perché è aumentata la frequenza d’uso sia nel significato primario di velenoso (toxic substance, toxic environment, toxic chemical…) che in accezioni figurate più recenti in collocazioni come toxic masculinitytoxic relationshiptoxic culture.

C’è un uso simile anche in italiano, simile all’uso metaforico di avvelenato: probabilmente per interferenza dell’inglese, sono sempre più diffuse locuzioni come relazione tossicasentimenti tossici, amicizia tossica (che fanno stare male, che rovinano la vita – nulla a che vedere con le sostanze stupefacenti).

Altre parole del 2018

Hanno connotazioni poco positive anche le altre parole scelte da Oxford Dictionaries tra quelle più rappresentative del 2018:

gaslighting, incel, techlash, gammon, Big Dick Energy, cakeism, orbiting

Incel

La parola macedonia incel deriva da involuntarily celibate. Identifica maschi giovani che loro malgrado non hanno alcuna vita sessuale e covano un tale risentimento verso chi invece ce l’ha che possono arrivare a uccidere, come è successo a Toronto nell’aprile 2018.

Techlash

La parola techlash è una reazione negativa intensa e diffusa suscitata dal potere crescente delle grandi aziende tecnologiche, in particolare quelle associate alla Silicon Valley.

Il neologismo è stato coniato nel 2013 da The Economist ma ha avuto una grande diffusione nei media solo ultimamente. È stato usato in relazione agli scandali che hanno colpito FacebookGoogle e altri giganti informatici, cambiandone la percezione nell’opinione pubblica: inevitabili le reazioni negative quando sono state svelate le pratiche di diffusione di notizie false (“fake news”), di manipolazione dell’opinione pubblica e di gestione sconsiderata dei dati personali.

Esempi di titoli: The coming tech-lash; The techlash against Amazon, Facebook and Google – and what they can do; Internet firms face a global techlash; Can Netflix please investors and still avoid the techlash?; The techlash is coming.

La parola techlash è modellata su backlash, letteralmente un contraccolpo. Nell’uso figurato, che è quello prevalente, backlash è una controreazione collettiva negativa, in genere dell’opinione pubblica, su questioni politiche o sociali che hanno avuto un’evoluzione recente.

Big Dick Energy 

Probabilmente destinata a rimanere un occasionalismo, Big Dick Energy (BDE) è un’espressione diventata virale dopo un tweet della cantante Ariana Grande. Si dice di persone carismatiche e molto sicure di sé ma non arroganti, che è impossibile ignorare perché emanano un’aura particolare (come suggerisce il nome, se sono uomini si presume siano anche molto dotati).

Cakeism

Neologismo esclusivamente britannico, cakeism è l’aspettativa di poter ottenere molto di più di quanto è realisticamente possibile o di poter usufruire di alternative egualmente desiderabili ma mutualmente esclusive. L’ho già descritto in Brexit: niente uvetta né ciliegie per gli inglesi: nasce da una frase ricorrente dell’ex ministro Boris Johnson, my policy on cake is pro having it and pro eating it.

Theresa May vestita da Maria Antonietta dice Let us eat cake! (sullo sfondo una ghigliottina con la bandiera UE)  Didascalia: Brexit Strategy
Vignetta di Dave Brown; cfr. anche Ghigliottine, (pan) brioche e torte

Overtourism

Con overtourism si intende la presenza eccessiva di turisti in località famose che ha come conseguenza danni ai monumenti e all’ambiente e disagi per i residenti. Cfr. turismofobia.

Orbiting 

Orbiting è il comportamento di chi pone fine a una relazione sentimentale interrompendo improvvisamente ogni tipo di comunicazione diretta e ogni interazione con l’altra persona ma continuando a seguirla sui social.

Il significato figurato di orbiting non coincide con quello di orbitare in italiano, che invece vuol dire gravitare, essere o muoversi nella sfera di influenza di realtà politiche o economiche (in questa accezione in inglese sono più comuni costruzioni con il sostantivo orbit, ad es. bring draw into someone’s orbit).

L’orbiting è diverso dal ghostingcomportamento con cui si scompare improvvisamente e definitivamente senza alcuna spiegazione, e dallo zombieing, con cui si scompare per poi riapparire dopo molto tempo, come se nulla fosse.
..

In 2018, anno di plogging, floss, gaslighting… ho già descritto gaslighting e gammon, due parole dell’anno scelte anche da Collins Dictionary.


* Nota: Oxford Living Dictionaries NON è l’illustre Oxford English Dictionary (OED), anche se la casa editrice è la stessa. Il primo descrive l’inglese contemporaneo e il suo uso (e pubblica le parole dell’anno), il secondo invece registra l’evoluzione della lingua ed è focalizzato sugli aspetti diacronici. Dettagli in What are the main differences between the OED and ODO?

Francesco Urzì: quel che le grammatiche non dicono

La passione per le lingue di Francesco Urzì è sbocciata molto presto e l’ha portato decisamente lontano: laureato in glottologia, per trent’anni è stato traduttore al Parlamento Europeo (dopo aver imparato appositamente l’olandese) e questa esperienza, sommata a un metodo appreso fin dall’infanzia, l’ha spinto a compilare il Dizionario delle combinazioni lessicali, uno strumento imprescindibile per qualsiasi traduttore. Inoltre è stato coordinatore per le tecnologie CAT al Parlamento Europeo, e oggi si dedica a dare conferenze in tutto il mondo sulla traduzione e dintorni.

TradPro 2018 – Una giornata di formazione e networking per traduttori e professionisti delle lingue ha condiviso con noi la sua lunga e ricchissima esperienza e ci ha spiegato quel che le grammatiche non dicono, fornendoci gli strumenti giusti per riuscire in una delle imprese più complesse e sempre più richieste per i traduttori e tutti i professionisti delle lingue: la concisione.

In questa intervista ripercorre con noi le tappe fondamentali della sua carriera, regalandoci spunti, consigli utili… e una buona dose di passione inestinguibile.

Dalla laurea in glottologia, all’approdo nell’équipe di traduttori del Parlamento Europeo, alle tue innumerevoli esperienze nell’abito della terminologia e della linguistica: come è nato e cresciuto il tuo amore per le lingue, e in particolare per quella italiana?

Fin da ragazzo ho avuto una particolare passione per le lingue. Ricordo che in prima media, alla fine dell’anno scolastico, il professore di italiano e latino diede come compito per le vacanze l’apprendimento a memoria delle traduzioni dei vocaboli latini contenuti nel mini-dizionarietto che figurava in appendice alla nostra grammatica. Al ritorno dalle vacanze scoprii che ero stato il solo a prendere sul serio il professore e a memorizzare gli oltre 1000 vocaboli del dizionarietto! Gli studi di glottologia all’università di Messina sono stati, almeno sul piano teorico, il coronamento di questa mia passione, tanto che la mia tesi ha riguardato … l’aoristo sigmatico in sanscrito! Successivamente ho seguito con attenzione le vicende dei servizi linguistici della Comunità europea e, avendo appreso che l’olandese – una delle lingue degli Stati fondatori della Comunità europea – era ancora molto richiesta e forte delle mie conoscenze linguistiche generali, ho potuto apprendere questa lingua in tempi relativamente brevi. La scelta si è rivelata vincente.

Nel 2009 hai pubblicato il primo Dizionario delle combinazioni lessicali della lingua italiana (che gli iscritti a TradPro potranno acquistare con un codice sconto).Puoi spiegarci di cosa si tratta e come si è svolto questo lavoro così lungo e complesso?

Anche qui un riferimento alla mia infanzia è d’obbligo. Mio padre soleva raccogliere in un’agenda citazioni, detti e frasi celebri, alcune delle quali sottolineava con aggiunta di commenti propri. Una volta assunto al Parlamento europeo come traduttore feci qualcosa di simile. Riempivo una scheda ogni volta che imbattevo in una combinazione di parole (combinazione lessicale, appunto) o un frasema che avrebbe potuto essermi utile in seguito. Dopo 10 anni lo schedario riempiva già un intero armadietto con sei lunghi cassetti metallici. Questo ha costituito il nucleo del Dizionario delle Combinazioni Lessicali. Per la compilazione del DCL ho dovuto poi effettuare anche uno spoglio manuale di quasi tutti i dizionari esistenti all’epoca e, in fase di revisione, ho aggiunto molto materiale tratto dal web (allora non c’era Google ma solo Altavista, che però offriva un numero di operatori booleani decisamente superiore). La scelta delle “collocazioni” si deve al fatto che una delle cose che fanno perdere tempo al traduttore è proprio la ricerca del verbo o dell’aggettivo combinabile con un nome. Pensate alle risoluzioni del Parlamento quando esprime una ferma o dura condanna per l’operato di questo o di quello, o a certi testi giuridici in cui si afferma che l’arbitrato è stato esercitato conformemente agli standard delle Nazioni Unite. Questa esigenza era stata sempre ignorata dai dizionari tradizionali, che al massimo proponevano qualche riquadro terminologico per alcune voci selezionate. Alla pubblicazione del DCL è seguita nel giro di poco più di quattro anni quella di altri quattro dizionari di collocazioni, anche se ciascuno con una diversa impostazione teorica.

Sei stato coordinatore di Unità per le tecnologie CAT al Parlamento Europeo, quindi non puoi sottrarti alla domanda da un milione di dollari: nel prossimo futuro la tecnologia prenderà il sopravvento sui traduttori umani o c’è ancora qualche speranza?

Le tecnologie CAT hanno a mio parere segnato una vera e propria rivoluzione per il traduttore, paragonabile all’avvento del word processing nell’epoca delle macchine da scrivere. La traduzione automatica (ora integrabile con le tecnologie CAT) ha fatto passi da gigante con i recentissimi sistemi “neuronali”, come il sistema tedesco Deep-L. A mio parere, dopo una inevitabile fase di transizione, assisteremo a una ulteriore specializzazione del lavoro di traduzione, con la comparsa di una nicchia di mercato riservata alle traduzioni di alta qualità, che farà convergere progressivamente la translation verso la transcreation. Ci sarà naturalmente molto maggiore spazio per l’editing e il post-editing. Tutto dipenderà dalla capacità dei committenti di comprendere appieno il valore aggiunto rappresentato dall’efficacia della comunicazione.

A TradPro 2018 terrai un intervento dal titolo Quel che le grammatiche non dicono, in cui spiegherai come utilizzare la lingua italiana per raggiungere l’obiettivo della concisione, così importante nella comunicazione di oggi. Cosa può fare secondo te un traduttore o comunicatore per allenare la propria dimestichezza con le infinite risorse della nostra lingua?

La risposta è una sola: i corpora di testiCon i corpora siamo in grado di “intercettare” in itinere lessemi e costrutti che le grammatiche tradizionali o i dizionari non registrano ancora, ma sono di uso comune. Non a caso Tullio De Mauro ha intitolato la propria opera “Grande Dizionario di italiano dell’usoA mio parere ogni traduttore dovrebbe sfruttare al massimo i corpora esistenti, che ci danno la fotografia della lingua reale di oggi anche in rapporto alle varie tipologie testuali. Naturalmente sono da considerare corpora a tutti gli effetti anche Google (e altri browser meno noti come Exalead e QWant). Si tratta di strumenti potenti che, se utilizzati con giudizio, permettono di individuare o verificare le nuove tendenze della lingua a livello lessicale, grammaticale, sintattico e testuale.

Oggi molti giovani traduttori desiderosi di lavorare in un ambiente multiculturale (e anche un po’ spaventati dalla prospettiva di una vita freelance) ambiscono a entrare nell’organico di qualche istituzione. Che consigli ti senti di dare loro, alla luce della tua esperienza professionale al Parlamento Europeo?

Quello di traduttore nelle Istituzioni europee è uno dei pochi posti rimasti in cui la figura del traduttore beneficia di un pieno riconoscimento. Purtroppo l’ente europeo preposto alle assunzioni – EPSO – ha deciso da tempo di effettuare le selezioni preliminari sulla base di quiz di tipo logico-matematico, che richiedono l’intervento di un diverso emisfero del cervello… Il consiglio che posso dare al riguardo è che tutto è “allenabile”, anche la velocità richiesta per l’esecuzione di questo tipo di prove. Anche per le prove di traduzione vere e proprie che seguono alla fase di selezione preliminare, occorrerà sviluppare una certa rapidità di esecuzione, per cui, come leggo nella vecchia agenda paterna “si eserciti presto, chi vuol esser maestro”.

Foto GdT 2017Laureato in Glottologia, Francesco Urzì ha svolto per oltre trent’anni l’attività di traduttore al Parlamento Europeo. È autore del Dizionario delle combinazioni lessicali, oltre che di diversi articoli di linguistica e traduttologia, e tiene regolarmente seminari e conferenze presso importanti sedi universitarie e professionali. È socio di Euralex, di Ass.I.Term e della Società di linguistica italiana.

Digitata manent: quanto conta l’italiano nella nostra “onlife”, secondo Vera Gheno

Non si può certo dire che Vera Gheno manchi di versatilità: sociolinguista, docente, traduttrice, membro della redazione di consulenza linguistica dell’Accademia della Crusca, della quale gestisce anche il profilo Twitter, partecipa instancabile a numerosissimi eventi in tutta Italia per approfondire i temi legati alla lingua mediata dal computer e all’influenza dei social sulla nostra vita. Come se non bastasse, è anche autrice di due fortunati libri editi da Franco Cesati: Guida pratica all’italiano scritto (senza diventare grammarnazi) (2016) e Social-Linguistica. Italiano e italiani dei social network (2017), due testi nati da esigenze diverse e ormai diventati imprescindibili per chiunque lavori con la lingua italiana nell’ecosistema iperconnesso di oggi… o semplicemente ami esprimersi con una buona dose di consapevolezza.

In questa intervista ci parla proprio delle sue due creature, che presenterà a TradPro – Una giornata di formazione e networking per traduttori e professionisti delle lingue, spiegandoci, con la consueta lucidità, quanto sia importante per noi traduttori conoscere a fondo l’italiano e usarlo come si deve, nel lavoro e nella nostra onlife.

Tutta la tua carriera ha al centro la lingua italiana e i suoi molteplici usi, dalle traduzioni letterarie alle sintesi di Twitter. Ci sveli come si è concretizzata l’idea di scrivere una Guida pratica all’italiano scritto e come hai affrontato questa tua prima esperienza da autrice?

Il libro nasce da una decina di anni di esperienza come docente di un laboratorio di italiano scritto per il corso di laurea di scienze umanistiche per la comunicazione all’università di Firenze. Non avevo, però, mai pensato di raccogliere i materiali del corso in alcun modo, se non fosse stato per la mia personale fata turchina: Silvia Columbano, allieva del mio corso molti anni addietro, diventata poi valente redattrice presso la casa editrice fiorentina Franco Cesati. È stata lei a contattarmi e a lanciare l’idea di pubblicare la Guida; io non ci ho messo molto ad accettare questa nuova sfida. E così è nato il mio primo libro, in cui ho condensato non solo quanto imparato dal confronto costante con generazioni di studenti, ma anche tutto quello che mi è passato sotto il naso gestendo il profilo Twitter dell’Accademia della Crusca in termini di convinzioni, stereotipi, fissazioni e bufale inerenti alla lingua.

La tua Guida ha una parentesi curiosa che recita Senza diventare grammarnazi. Puoi spiegarci chi sono i grammarnazi e perché è consigliabile non diventarlo?

I grammarnazi sono persone pedanti, che passano il tempo dando la caccia agli errori altrui, risultando in questo modo estremamente antipatiche. Normalmente non si tratta di soggetti con una conoscenza approfondita della lingua; piuttosto, si basano su nozioni scolastiche ormai “imbalsamate” (per esempio: “a me mi non si dice”; “le persone non si arrabbiano, quello lo fanno i cani. Le persone si adirano”), che non tengono conto della natura complessa e fluida della norma linguistica. In altre parole, la norma quasi mai è fatta di bianchi e di neri, ma molto più spesso è come una scala di infinite sfumature di grigio. Raramente si può dire che una cosa sia giusta o sbagliata, ma occorre invece considerarla assieme al suo contesto per capire se sia più o meno adatta a questo. Praticando la riflessione metacognitiva sulla lingua, si tende a comprendere meglio questa sua natura complessa, il suo essere un organismo vivo e mobile, e si passa dallo stadio di si dice/non si dice a quello di si dice in un certo caso/non si dice in un altro caso. Insomma: massima attenzione per l’uso della propria lingua, ma senza diventare maestrini rigidi e pedanti.

Secondo la tua esperienza, quanto coccoliamo la nostra lingua noi italiani e quanto, invece, la maltrattiamo? E pur essendone parlanti, la conosciamo davvero o per noi rimane ancora un mistero tutto da svelare?

La lingua ha alcuni scopi centrali: quello di descrivere con precisione la realtà che ci circonda e quello di supplire ai bisogni dei suoi parlanti. Come tutti i nativi di un certo idioma, anche noi italiani tendiamo a bistrattare la nostra lingua perché la diamo un po’ per scontata: in fondo, la parliamo sin dai primi anni della nostra vita… e invece è una competenza incredibile, quella del linguaggio: è anche una delle caratteristiche che più identificano il genere umano. Siamo gli unici animali sulla Terra in grado di usare un sistema di comunicazione così avanzato. È un peccato, quindi, usare la propria lingua madre in maniera sciatta e superficiale. Purtroppo, molto spesso è così. E gran parte di essa rimane, per la maggior parte dei parlanti, un vero mistero. Si pensi solo che una persona mediamente acculturata conosce qualche decina di migliaia di parole (ne usa attivamente molte meno), e che un dizionario come lo Zingarelli ne contiene circa 145.000, che tra l’altro sono solo una parte di tutto il lessico dell’italiano, che ammonta a diverse centinaia di migliaia di termini. Possiamo continuare a studiare la nostra lingua madre per tutta la vita, e comunque non arrivare mai a conoscerla interamente, anche solo a livello di lessico, dato che anche mentre la studiamo essa cambierà per adeguarsi ai nuovi bisogni dei suoi parlanti.

Il tuo secondo libro si intitola Social-linguistica. Italiano e italiani dei social media. Come e a che scopo è nato il desiderio di scrivere questo “diario di bordo” della tua esperienza sui social media?

Frequento la rete da vent’anni, social network compresi (in fondo, newsgroup e chatline non sono altro che dei proto-social, anche se all’epoca nessuno li chiamava ancora così). Stando da così tanto tempo in rete, ho avuto il privilegio di assistere a una serie di evoluzioni interessantissime: la popolarizzazione della comunicazione mediata, prima appannaggio di pochi fortunati che potevano permettersi un computer, la nascita di Facebook, i cambiamenti delle persone nella nuova società iperconnessa. Ho voluto scrivere Social-linguistica come ringraziamento, per condividere con altre persone le mie conoscenze, perché ritengo che alcune di queste possano essere utili a chiunque voglia utilizzare internet e i servizi resi disponibili da essa in maniera intelligente. I nativi cartacei spesso si sentono a disagio nello stare online, e quindi si privano di questa esperienza per paura di sbagliare, mentre i nativi digitali sovente non sono anche alfabetizzati digitali e commettono a loro volta un sacco di errori; io vorrei dare qualche dritta su come tutti possiamo vivere la nostra onlife, come la definisce Luciano Floridi, in maniera soddisfacente, sfatando anche tanti miti spaventosi che circondano il mondo della rete. Internet non fa affatto male, se usata bene. E tutti possiamo farci le competenze minime per poterla vivere in maniera costruttiva.Che nessuno si faccia spaventare dal titolo: è soprattutto un viaggio, a tratti divertente, tra i nostri tic linguistici e comunicativi in qualità di abitanti della rete.

Credi, come sostengono molti, che l’avvento dei social abbia semplicemente portato alla luce comportamenti e idee che prima rimanevano confinati nella stretta cerchia delle conoscenze, o che abbia realmente modificato il nostro modo di pensare, esprimerci e interagire?

Credo un po’ entrambe le cose. Sicuramente, se in rete esistono aggressività, discorsi di odio, bullismo, stalking e tutte le altre forme di comunicazione deragliata che vediamo quotidianamente, è perché ce le portiamo dietro dalla vita reale: non è che uno diventi xenofobo o misogino o violento magicamente davanti (o dietro) a uno schermo. Certo, è altrettanto vero che la mediatezza della comunicazione rende più complicate le cose. In parole povere, è senza dubbio più semplice odiare chi non vediamo in faccia, chi non abbiamo di fronte. Con l’effetto disinibente della rete occorre sicuramente fare i conti.

D’altro canto, la tecnologia ha cambiato il nostro modo di pensare, anzi, di conoscere la realtà. Che cosa comporta, in termini cognitivi, il fatto di avere virtualmente qualsiasi informazione a portata di mano, anzi, di click? Il problema non è più la reperibilità delle informazioni, quanto la voglia di fare quel click, e di farlo in modo ragionato. Una delle competenze che stanno diventando centrali in questi anni è quella di riuscire a riconoscere la validità di una fonte, di saper leggere i risultati che ci fornisce Google in maniera intelligente. Oggi leggiamo tanto, ma ipotesti (definizione di Elena Pistolesi) più che testi interi; scriviamo tanto, ma di nuovo soprattutto testi brevissimi, frammentari, piuttosto che testi lunghi; comunichiamo, anche, tanto – praticamente di continuo – ma sovente in maniera superficiale.

Ricordiamo una cosa, per me fondamentale: che la comunicazione “elettronica” debba per forza essere veloce e sciatta è un mito. Proprio perché si tratta in linea di massima di comunicazione scritta, in realtà nulla ci vieta di prenderci il tempo per rileggere quanto stiamo per pubblicare in rete. Ci possiamo permettere il lusso del minuto in più di riflessione su quello che abbiamo scritto, considerato anche che qualsiasi cosa immessa nella rete diventa difficilissima da eradicare. Mai come ora è vero che scripta manent. Anzi, digitata manent: un motivo valido per concedersi una velocissima rilettura.

Infine, proviamo a rubarti uno scoop: hai già in programma un terzo libro? O se mai dovessi metterlo in agenda, quale tema ti piacerebbe affrontare?

Al momento, sono impegnata in un progetto molto ambizioso con il mio “partner in crime” Bruno Mastroianni. Assieme a lui, reduce dalla stesura del volume “La disputa felice”stiamo lavorando sui temi dell’etica della comunicazione, che giudichiamo una delle questioni centrali di questi anni e degli anni a venire. I molti incontri che teniamo nelle scuole in giro per l’Italia ci stanno aiutando a capire la direzione nella quale andare con le nostre riflessioni.

Vera copiaSociolinguista specializzata in Comunicazione mediata dal computer, Vera Gheno svolge attività di docente universitaria ed è membro della redazione di consulenza linguistica dell’Accademia della Crusca, ente per il quale gestisce anche il profilo Twitter. Traduce letteratura dall’ungherese all’italiano da più di quindici anni ed è autrice di due saggi di linguistica: Guida pratica all’italiano scritto (senza diventare grammarnazi) (2016) e Social-Linguistica. Italiano e italiani dei social network (2017), entrambi per Franco Cesati Editore.

I vantaggi di parlare diverse lingue

Di questi tempi moderni, a quasi tutti i professionisti viene richiesto la conoscenza fluente di più di una lingua. Sia alle elementari, che alle superiori e all’università, gli studenti devono scegliere un corso di lingue per poter essere promossi. Tuttavia, i vantaggi di parlare più di una lingua va ben oltre la sfera meramente professionale.

Parlare correntemente una seconda lingua (o una terza o una quarta…) può aiutare a connettersi alle proprie radici e retaggio, si sceglie di parlare una lingua parlata dalle precedenti generazioni della propria famiglia. Negli Stati Uniti, tutti hanno un parente immigrante o dall’Europa, dall’Africa, dall’Asia, dal sud America ecc. Imparare la lingua che la propria famiglia parlava prima di imparare l’inglese può certamente essere un modo per capire meglio la storia e i legami familiari.

Inoltre, imparare una lingua straniera è anche salutare per il proprio cervello. Degli studi hanno dimostrato che le persone che parlano diverse lingue hanno una memoria migliore e corrono meno rischi di sviluppare l’Alzheimer. Una volta diventato bilingue è anche più facile diventare polivalente passando da una lingua ad un’altra.

Altri benefici riguardano le differenze culturali, in quanto le persone che parlano diverse linguesono in grado di cogliere le sottigliezze che si perdono nella traduzione, senza dimenticare la comprensione dei film, della musica, e della letteratura senza bisogno di sottotitoli, doppiaggio e traduzioni.

Per concludere, studiare le lingue straniere e parlare una seconda o terza lingua in più della propria lingua madre comporta tanti chiari benefici…e nessun inconveniente.

Fonte: Articolo pubblicato il 2 febbraio 2015 su Trusted Translations

Traduzione a cura di :
Diringbin Sandrine
Dott.ssa magistrale in giurisprudenza madrelingua francese e mediatrice
Cassano d’Adda (MI)

Mi oppongo, vostro onore! (ovvero, perché non mi vergogno di tradurre bestseller)

Qualche giorno fa, parlando con una collega, ci siamo trovate immerse in una discussione vecchia come il cucco: la collega raccontava di un messaggio in cui si era imbattuta in non so quale social. Nel messaggio, un giovane aspirante traduttore sosteneva che fosse inutile cercare di diventare traduttori editoriali, perché tanto il mercato della traduzione è marcio e i libri importanti vengono assegnati sempre ai soliti noti. Ora, potremmo discutere per ore del buco nero di nonsense creato dalla sola idea di parlare di traduttori e notorietà nella stessa frase (come diceva l’argutacollega® in questione, già solo pensarci fa scoppiare il cervello), e potremmo parlare per ore anche dell’idea di un mercato editoriale non meritocratico che va avanti a raccomandazioni e spintarelle, manco fossimo tutti olgettine che aspirano a entrare in Mediaset. I due argomenti meriterebbero post dedicati, anche perché queste recriminazioni sono un po’ come l’uovo e la gallina: è nato prima il giovane traduttore che accusa i vecchi di monopolizzare il mercato o il vecchio che accusa il giovane di non riuscire a farsi strada e di prendersela con chi non c’entra nulla?

I libri importanti, la merda, i corgi

Ma non è di questo che voglio parlare oggi. Perché di quella frase mi ha colpito soprattutto l’accento messo da quel ragazzo sull’impossibilità di raggiungere i “libri importanti”.  Magari, sembrava sottintendere la sfuriata, è pure possibile tradurre quelli meno importanti,  ma che ce frega? I capolavori sono tutti presi, i romanzi profondissimi sono già assegnati, a noi ce rimane la merda (c’è chi l’apprezza, poi, oh).
Mi sono chiesta allora se sia veramente brutto o disdicevole o addirittura umiliante tradurre libri che non facciano arrivare l’autore a due passi dal Nobel, che non finiscano tra le mani di un intellettuale barbuto che li rileggerà per la sessantaseiesima volta con la pipa in bocca e i piedi poggiati su un Welsh corgi disteso davanti al caminetto.
Insomma, in due parole: noi che traduciamo libri “di consumo” siamo davvero traduttori di serie B? Dovremmo forse vergognarci di quello che facciamo?
Ovviamente non ce l’ho con quel ragazzo in particolare: una volta ero come lui. Anzi, ero proprio lui. Quando ho cominciato a tradurre non mi sono posta neanche il problema di voler tradurre libri importanti. Davo per scontato che sarebbe successo. Per me l’equazione era piuttosto semplice: traduttore editoriale uguale intellettuale uguale letterato uguale alta letteratura. Tutto il resto era robaccia buona per foderare la gabbietta dei criceti.

Il lavoro nobilita l’uomo (e la donna)

Poi, vedete, ho cominciato a lavorare. Ed è quando la traduzione smette di essere un mito e diventa un lavoro vero,forse, che la prospettiva cambia. Perché a quel punto mi hanno offerto un horror per ragazzi. E poi un romanzo d’amore. E un thriller. E infine quello che mi è più  caro, quello che guardo con più indulgenza (ma anche, sì, un po’ di bonario “ma che cazzo dici??”): il BESTSELLERONE. Il romanzo da ombrellone, il libro da mille milioni di copie vendute pure in Uganda che prevede intrighi e sparatorie, studiosi americani con la barba sfatta e cardinali corrotti che parlano con la bocca piena de salame, e che a un certo punto (non ve lo aspettereste mai proprio mai!) ci svela che IN VATICANO C’È UN TERRIBILE SEGRETO!!
Mi sono confrontata con la persona che ero  un tempo e mi sono chiesta se a oggi mi imbarazzi tradurre libri del genere.
La risposta ovviamente è no.  Al di là delle ovvie considerazioni sul fatto che tradurre non è una missione, è un lavoro, e che quindi a volte può piacerci e a volte ci piacerà meno (a qualcuno è toccato ritradurre il Mein Kampf, non sarò certo io a lamentarmi perché i protagonisti del mio romanzo passano intere giornate a guardarsi nelle palle degli occhi), la verità è che ritengo che chi  snobba i bestselleroni guardi al problema da una prospettiva sbagliata (e del resto, come dice un’altra argutacollega®, il vantaggio dei libri di ampio consumo è che a differenza dei capolavori sono tanti, come le bollette).

I libri che la gente legge davvero

Al giorno d’oggi per me la narrativa di consumo equivale ai telefilm americani, e nei telefilm americani c’è sempre un avvocato che dice una cosa che io trovo illuminante.
Quando l’avvocato in questione viene assunto per difendere un efferato serial killer coprofago, un politico palazzinaro e mafioso e anche un po’ pelato, o comunque qualcuno con cui lo spettatore non può simpatizzare, un altro personaggio gli chiede se non si vergogni a difendere un uomo (o una donna) del genere. Al che l’avvocato si spolvera i pelucchi dal bavero della giacca, si liscia i capelli foltissimi, si erge in tutta la sua possanza statunitense e tuona: “Questa è l’America! Anche i delinquenti hanno diritto a un processo equo! Se ce ne dimentichiamo la giustizia è morta!”.
Ecco, io mi sento, nei confronti dei bestselleroni, come quell’avvocato si sente nei confronti dei suoi assistiti.  Sono cioè convinta che anche i libri poracci abbiano diritto a una buona traduzione.
Anzi, a maggior ragione ne hanno diritto: questi sono i libri, come mi ricorda ogni tanto Chiara, che la gente legge davvero. Per ogni quasi-Nobel che entra nelle case dei lettori forti accoccolandosi tra pile e pile di amici libri-importanti, ci sono almeno una cinquantina di TERRIBILI SEGRETI IN VATICANO!! che entrano nelle case di gente che normalmente legge poco o non legge affatto.
Mi chiedo quindi se noi che traduciamo questi romanzi non abbiamo forse una responsabilità ancora più grande di chi traduce il Nobel: perché in fondo noi entriamo in moltissime case,  ed entrando nelle case e nelle teste di chi normalmente non legge granché possiamo essere lo strumento che porterà quelle persone a leggere ancora, a leggere di più (senza contare che questi libri sono i guilty pleasures di molti di noi, non solo lo sfogo del lettore debolissimo che ha rotto la TV).

Libro cattivo o buon prodotto?

E badate bene: non parlo qui di libri brutti, mal scritti, impossibili da tradurre (perché quelli ci sono e sono faticosissimi e lo sappiamo). No, io parlo di libri discreti ma fini a se stessi, libri che sono considerati brutti perché non sono profondi, perché (torniamo all’inizio) non sono importanti.
Sono anzi spesso buoni prodotti, ben confezionati: e forse noi traduttori ce ne allontaniamo disgustati proprio perché non ci piace pensare che non tutti i libri con cui lavoriamo sono messaggeri di un cambiamento epocale, portatori di illuminazione per bodhisattva da biblioteca: a volte sono solo, appunto, un prodotto ben confezionato. Forse ci sembra che ammetterlo renda il nostro lavoro meno nobile. Ma di nuovo: io non ci trovo niente di poco nobile nell’accompagnare un non lettore nel mondo della lettura,  se anche per farlo dobbiamo immergerci nei TERRIBILI SEGRETI DEL VATICANO!!.
Questo post, insomma, è per tutti i colleghi che difendono il serial killer coprofago e il palazzinaro pelato, che portano in libreria i femminili, i thrilleroni, i bestselleroni, i giallacci e tutte quelle cose volatili e belle che non sembrano abbastanza importanti a chi comincia a lavorare, ma che a me, invece, col senno di poi, sembrano importantissime.

Traduttori editoriali, 5 modi per aiutare la categoria

Che i traduttori facciano un lavoro importante è ormai cosa risaputa (o almeno lo è qui, dove la categoria gode di riconoscimento, apprezzamento e incensamenti continui e meritatissimi); e che senza i traduttori, nello specifico quelli editoriali, nessuno di noi sarebbe stato in grado di leggere e apprezzare i nostri libri stranieri preferiti, dalla saga dei Malaussène di Pennac ai classiconi come Anna Karenina, è ancora più ovvio.

Un’altra cosa che si sa è che, ahimé, per quanto indispensabile, la nostra categoria è spesso trascurata e bistrattata:il traduttore conduce un’ormai proverbiale vita agra di bianciardiana memoria, è sfruttato, sottopagato, cornuto e mazziato, è un cottimista dell’editoria e una creatura sempre in bilico tra carestia di stampo “Irlanda primi ‘900” e “bambino biafrano fine anni ‘80”.

Ma, sarà perché non ci piace piangerci addosso, qui non amiamo molto assecondare questa visione catastrofista e sciagurata delle cose: preferiamo, se possibile, fare ciò che possiamo per cambiarla. Quindi questa settimana abbiamo approfittato di alcune domande che ci sono arrivate da aspiranti colleghi per trovare risposta a una questione molto sentita: se è vero – com’è vero – che la vita, e il lavoro, dei traduttori editoriali sono tanto difficili e sventurati, cosa possiamo fare noi per migliorarli? Ovvero, esiste qualcosa che (da aspiranti traduttori editoriali, o da semplici lettori) possiamo fare per rendere la vita dei traduttori più facile e il mercato della traduzione editoriale più felice e proficuo sul lungo periodo? C’è un  modo per aiutare chi ci porta in casa i romanzi di Stephen King e la saga di Harry Potter, per fargli capire che il suo lavoro è per noi prezioso e per fare in modo che sempre più persone lo apprezzino e lo riconoscano?

Forse sì. O meglio, di cose ce ne sono venute in mente almeno cinque, ed eccole qui: se ci impegnassimo tutti a farne almeno una entro questa settimana, un sacco di traduttori riceverebbero una bella iniezione di autostima e un regalo di San Valentino anticipato:

1) Studiate il mercato e parlate solo se sapete di cosa state parlando
La prima raccomandazione è questa: semplicemente, informatevi. Il mondo dell’editoria non è esoterico quanto sembra a qualcuno, ma non è nemmeno elementare quanto sembra a qualcun altro. Ogni volta che un lettore rabbioso e sprovveduto stronca su Amazon una traduzione senza conoscere la lingua dell’originale o senza essersi preso la briga di controllare che la resa “legnosa e illeggibile” non corrispondesse in realtà a un originale già di suo legnoso e illeggibile, ogni volta che un aspirante traduttore si lamenta di non riuscire a entrare nel mercato rifiutandosi però di capire come funzioni davvero la filiera editoriale, ogni volta che un collega alle prime armi firma un contratto capestro aumentando il potere dei committenti truffaldini, una fatina muore. O se non altro, la categoria dei traduttori vive una battuta d’arresto che rende le sue condizioni di vita, e di lavoro, più complicate. Quindi, semplicemente, se volete aiutarci (e a maggior ragione se volete diventare anche voi un traduttore), studiate un pochino: noi, come molte altre realtà, siamo qui per aiutarvi. E per capire meglio come funzionano le cose, un passo alla volta e insieme.

2) Diffondete informazioni e siate costruttivi
Una volta che avete capito qualcosina di più, potete appuntarvi sul bavero la medaglia da Giovane Marmotta, e cominciare a diffondere il verbo. Lungi da noi chiedervi di trasformarvi in seguaci di Scientology o di assumere l’atteggiamento saccente dell’ex fumatore che ormai tormenta tutti con promesse di enfisemi fulminanti, ma di sicuro potete cominciare facendo una cosa buona e giusta: se qualcuno che conoscete dice una plateale baggianata, se un aspirante collega non sa dove trovare un’informazione indispensabile o è indeciso se firmare o meno un contratto contenente una clausola vessatoria, fatevi avanti. Con garbo e gentilezza, spiegate ciò che avete imparato, o fornite indicazioni utili su dove andare a cercare notizie più dettagliate: l’aspirante collega ve ne sarà grato, tutti saremo un po’ più consapevoli e il magico potere dei TraduttoriUniti© avrà sconfitto le tenebre dell’ignoranza una volta di più. Win-win-win, insomma.

3) Scrivete agli editori (nel bene e nel male)
Quante volte vi siete commossi leggendo un libro? Quante volte avete preso carta e penna (o tastiera e mouse) e avete scritto all’autore, o all’editore, complimentandovi per la pubblicazione di quel capolavoro? Bene, nella nostra opera di ricostruzione pro-traduttori è giunto il momento di farlo anche per chi quel libro ve l’ha portato in italiano. Se incontrate una traduzione particolarmente ben fatta, inviate una email all’editore e fategli i complimenti per aver scelto un bravo traduttore e avergli consentito di fare un buon lavoro. Se dopo sei volumi di una saga sentite che il traduttore è un po’ un vostro amico, ringraziatelo (sul vostro blog, o via email, o parlandone con gli amici o con vostra zia) per avervi regalato tante ore di pura gioia. Ovviamente anche la critica costruttiva fa bene alla categoria, non solo il complimento fine a se stesso: assicuratevi però che sia davvero doverosa, circostanziata, ben illustrata e non oziosa. Se scriverete a un editore per fargli notare una svista traduttiva o una strategia clamorosamente sbagliata, e se lo farete con tatto, vi sarà di sicuro riconoscente: se in un libro straordinario di 600 splendide pagine troverete un refuso e subito ne approfitterete per minacciare l’editore di bruciare il volume in un falò, all’unico scopo di fare il grammar nazi… ecco, be’, non fatelo. Risultereste simpatici come un’emorroide, e diciamoci la verità, chi aspira a una cosa simile?

4) Finanziate il nostro lavoro (se potete)
Se pensate che la più grossa sventura dei traduttori sia che non sono abbastanza pagati, avete ragione. E se volete aiutarci a cambiare le cose, partecipate alle nostre lotte (sindacali e non) per avere un maggior riconoscimento economico: firmate petizioni se vi capita di vederne, ospitate o scrivete articoli sull’argomento, fate in modo che quando esce un’intervista sul tema più persone possibile possano vederla, protestate vibratamente, magari addirittura boicottandoli, contro gli editori che sapete che non pagano a sufficienza i traduttori (e i collaboratori in genere). E se vi servite di un traduttore (anche non editoriale), pagatelo sempre il giusto. Riconoscete il valore di ciò che fa, e la sua straordinaria competenza lavorativa, nel modo più ovvio e banale che ci sia: con il corrispettivo in denaro che merita.

5) Fate i nomi!
La legge sul diritto d’autore obbliga chiunque nomini una traduzione italiana di un’opera scritta in un’altra lingua a citare il traduttore, esattamente come si cita l’autore e l’editore dell’opera stessa. Ahimé, quasi nessuno lo fa. Nemmeno nei giornali più famosi mancano i box e le recensioni in cui si riporta tutto di un libro (autore, editore, data di pubblicazione, numero di pagine, addirittura se la copertina è in brossura e rigida) tranne che la cosa forse più importante: il nome del traduttore, che quel libro lo ha reso accessibile al lettore italiano. Da oggi in poi, fatevi un punto d’onore di cambiare le cose: fate sempre i nomi dei traduttori dei libri di cui parlate, degli spezzoni di romanzo che riportate su Facebook, dei volumi che recensite sul vostro blog. E se qualcuno cita un libro, o un brano, tradotto in italiano, senza però dire che è l’autore della versione italiana, chiedete sempre, in un commento gentile e rispettoso: “Chi l’ha tradotto, questo, scusa?”. Farlo non cambierà le cose dall’oggi al domani, forse, ma possiamo garantirvi che il cuore di ogni traduttore che dovesse leggere quella domanda farebbe una capriola di gioia: e chi non vorrebbe far fare al cuore di qualcuno una capriola? Del resto, basta così poco…

CULTURA. Cambiamenti nella letteratura di genere: le giovani autrici arabe

La nuova generazione di scrittrici non ama posizionarsi tra le fila delle correnti femministe, ma ha sviluppato un’autonomia nel processo di scrittura che esula dalle realtà letterarie esistenti. L’uso riservato alla scrittura è, dal loro punto di vista, pratico, immediato, concreto e incisivo negli effetti.

Roma, 23 gennaio 2017, Nena News – La denominazione, “letteratura di genere”, potrebbe indurre a un approccio riduzionista nei confronti delle autrici e dei loro testi, con riguardo alle nuove possibilità d’interpretazione. Si tratta dell’insidia connaturata alla letteratura araba (e non solo), femminile, che pare influenzarne la percezione della sua sostanza. Quali sono le specificità della scrittura femminile? È corretto, circoscrivere la produzione letteraria femminile all’interno dei molteplici femminismi, intesi come movimenti/correnti di pensiero? Ed infine, a fronte della miriade di scritti firmati da donne, vi è una logica consequenziale nello stabilire una coincidenza tra, un romanzo che sfogli tematiche femminili, con l’ambizione di difendere l”esser donna’? A prima vista, sembrerebbe di no.

La nuova generazione di scrittrici arabe e mediorientali non ama posizionarsi tra le fila delle correnti femministe; si tratta di molte palestinesi, libanesi, turche, che hanno sviluppato un’autonomia nel processo di scrittura che, esula dalle realtà letterarie esistenti. L”uso’ riservato alla scrittura, è, dal loro punto di vista, pratico, immediato, concreto, incisivo negli effetti. Chi sceglie di non amalgamarsi alla prospettiva di genere, nel senso più classico della sua accezione (senza per questo disdegnare coloro che vi aderiscono), sono le donne proiettate ad esplorare e ad interpretare la realtà sociopolitica e culturale del proprio Paese, riconoscendo sia uno spazio, pubblico e privato, condiviso con altre donne, sia l’urgenza di una narrativa che plasmi le loro riflessioni.

Si può fare/produrre letteratura anche da un campo di rifugiati o da un ospedale o da un aeroporto o da qualunque struttura operi nel sociale; si può scrivere, in forma letteraria, quando si analizza la condizione di vita di un gruppo, o di una minoranza, o quando ci si preoccupa di indagare il perché di alcune forme di vita. Il riferimento è a una scrittura che riporti quanto accade in determinati luoghi, che aiuti a riformulare la concezione che ciascuno di noi ha di parti del mondo, che ridisegnare condizioni di vita. Le giovani autrici non definiscono la religione come l’aspetto che, tra tutti, determina la loro vita, piuttosto come una struttura socio-culturale arcaica che plasma il comportamento e dirige l’agire.

Non è dunque, dal loro punto di vista, la tradizione religiosa a marcare la vita femminile, quanto, il monolitismo del sistema patriarcale, quale fonte di marginalità. In quest’ottica, la loro vocazione letteraria si traduce in attivismo e impegno sociale, ideologico, politico e culturale; nella volontà di evidenziare storie di esclusione, che toccano le donne, ma anche di oppressione, che raccolgono la spinta dall’assetto della società (e non dalla religione).

In che modo, una donna che ha dalla sua parte un potentissimo strumento di autorealizzazione, quale la scrittura, reagisce alle condizioni imposte da situazioni esterne? Una prima reazione è documentare ciò che vede intorno a sé e, sente di avere in comune con altre donne; scrivere del proprio vissutolegandolo a quello di altriL’elemento presente nella letteratura araba femminile degli ultimi anni (non marcatamente femminista), è quello biografico: raccontarsi in prima persona. In contesti socialmente e etnicamente gerarchizzati, le norme comportamentali prestabilite e le relative osservanze, rappresentano un incentivo al rigido controllo sociale.

Tale precisazione, dovrebbe ostacolare letture semplicistiche condotte attraverso la sola lente della religione, pur non negando, nelle analisi delle pratiche culturali, una linea di contiguità tra la condizione di fatto, che interessa “la donna musulmana” e una società più tradizionale, di stampo patriarcale, in cui l’appartenenza a una classe inferiore (la cui esistenza è tacitamente riconosciuta), o ad una minoranza etnica o religiosa, è oggetto di forme discriminatorie.

È fuorviante, concepire una sorta d’incomunicabilità tra i due mondi, culturale e letterario, mediorientale ed occidentale, così come delle rispettive voci. Ciò che la scrittura femminile cattura e rielabora, dai generi letterari diffusi in Europa, ad esempio, è la funzione della parola come rivendicazione della libertà di espressione, mentre il racconto e il romanzo, sono i generi scelti per abbattere la staticità di un ruolo femminile codificato. Dunque, le “letterature” si parlano e comunicano; un loro confronto ed intercambio è inevitabile.

Lo stile di scrittura femminile rivela le potenzialità espressive inscritte nella letteratura generata dalle donne: individuata, dal piano stilistico e formale, da una specifica trama e argomenti. I contenuti letterari appaiono inscindibili dal contesto sociopolitico e culturale e, dalle connessioni con i rapporti affettivi, il corpo femminile, il peso delle convenzioni sociali e l’essere madre. Un passaggio ulteriore, è avvertito dall’esigenza, da parte delle “nuove” scrittrici, di esplorare il campo della cultura e delle arti, allo scopo di inviare messaggi universalistici che, oltrepassino il Paese di nascita.

A questo, ha contribuito, l’aver individuato la natura di “disciplina della scrittura”, che si collega alla necessità di possedere competenze sedimentate quando si tratta di carpire, penetrare immagini e tradurle in rappresentazioni che, rispondano al bisogno di costruzione della propria individualità e di ricerca incessante, in tal senso, la letteratura si sta trasformando in forma di militanza attiva e resistenza intellettuale. Nena News

Di corse, vecchiaia e figuracce

Primo giorno di lavoro in una piccola ma potente azienda metalmeccanica. Premettendo che non avevo neanche vagamente idea di cosa fosse una macchina utensile a controllo numerico. Mi allungano un catalogo italiano-inglese da studiare. Lo sfoglio tutto (poche pagine per fortuna), mi cade l’occhio sulle due parole “run” e “race” in seconda pagina. Mmmh, mah. Ok. Cerco su un sito di traduttori l’espressione “corsa dei punzoni”, ovviamente non c’è traccia né di “run” né di “race” perché il termine è “stroke”. Controllo su altri siti per essere sicura al 100%, “stroke” è la mia parola. Mi faccio la nota sul catalogo e vado avanti.

Pur nella mia ignoranza tecnica il radar linguistico si accende ed individua vari sfondoni: lessicali, ortografici, italianismi. Di tutto un po’. Nel rispetto del lavoro che ha fatto un’altra persona, misurando le parole e in parte minimizzando, faccio presente al mio referente la questione.
“Ah sì? Davvero? Ne abbiamo fatti stampare da poco 3000”. Gulp, ops, cielo! Quei cataloghi sono durati an-ni.
Nei giorni a seguire incontro macchine neonate (newborn) e macchine che invecchiano (aging). Insomma. Metto pezze.

Sottolineo al titolare che se mi fa tradurre il manuale di programmazione di una macchina dall’italiano all’inglese non si ottiene un prodotto neanche vagamente decente tecnicamente, un compito del genere non si può chiedere ad un traduttore. Parole al vento.
Per anni a malincuore, consapevole della battaglia persa in partenza, ho tradotto manuali dall’italiano all’inglese, tedesco, spagnolo e francese. Con mio sommo orrore ed impegno. È stata una sfida, mi ha insegnato molto a prescindere, sono arrivata a crearmi un glossario multilingue di 980 entrate in italiano. Ho dovuto lottare contro tempi stretti (mi occupavo del backoffice commerciale estero oltre che delle traduzioni), contro spiegazioni tecniche approssimative e vagamente reticenti – “cos’è? Vuoi diventare un elettricista?” – per esempio.

Mi pento e mi dolgo dei manuali che sono arrivati ai quattro angoli della Terra per mano mia. Gli ultimi clienti sono stati più fortunati dei primi, in cinque anni ho imparato molto, come vorrei rileggere le prime traduzioni!
Non sono stata professionale pur volendolo in un mondo che di linguistica e traduzione non capisce neanche l’ABC. Potrei scrivere centinaia di buoni aneddoti linguistici, la raccolta si chiamerebbe “S.O.S. Battaglie di una linguista in azienda – come sopravvivere con la dignità quasi intatta”. Spero che qualche datore di lavoro legga e si illumini.

L’autrice dell’articolo ci ha chiesto di restare anonima