Si può sopprimere un cadavere? Risponde la Crusca

“Soppressione di cadavere” è una locuzione sentita in resoconti di cronaca nera, ma presente anche nel Codice penale italiano. Si può usare legittimamente o no?

Il verbo sopprimere deriva dal latino supprĭmere ‘trattenere, impedire’, composto di sub- ‘sotto’ e prĕmere ‘schiacciare, premere’ (cfr. DELI), da cui si è formato il sostantivo soppressione attestato in italiano già a partire dal XVI secolo. Nel linguaggio comune il verbo è usato principalmente in due differenti accezioni, ricche però di sfumature, che riprendiamo dal Devoto-Oli 2018:

Abolire ciò che era stato istituito o disposto precedentemente, annullare, abrogare, revocare: sopprimere una cattedra, un ufficio || Eliminare per ragioni di opportunità o convenienza, cancellare: sopprimere una clausola contrattuale; sopprimere le scene scabrose di un film || Impedire la pubblicazione di un testo o la realizzazione di un programma con un atto d’autorità: sopprimere una rivista, uno spettacolo.
Eliminare fisicamente, uccidere, ammazzare: sopprimere un animale malato; sopprimere un ostaggio, un testimone.
Esiste un terzo significato ormai in disuso e segnalato come arcaico di ‘calpestare, calcare’, semanticamente vicino alla derivazione latina. È in questa accezione che il verbo viene attestato per la prima volta nel XIV canto dell’Inferno dantesco (1313): lo spazzo era una rena arida e spessa | non d’altra foggia fatta che colei | che fu da’ piè di Caton già soppressa.

Consultando il GDLI, dizionario storico dell’italiano, troviamo inoltre sopprimere nel significato tecnico di ‘sottrarre un oggetto e in particolare un documento (senza distruggerlo, ma occultandolo o alterandolo) al previsto uso o destinazione (e un tale comportamento costituisce per lo più reato)’. La soppressione di corrispondenza è oggi un reato stabilito dall’articolo 616 del Codice penale italiano e consiste nel sottrarre e far sparire la corrispondenza diretta a terze persone.

Anche il sostantivo soppressione ha diverse accezioni derivate dal verbo e molti usi tecnici,oltre che nel diritto, in medicina, genetica, psicologia.

Nella banca dati Vocanet-LGI dell’ITTIG Istituto di Teoria e Tecniche dell’Informazione Giuridica, che raccoglie dati del lessico giuridico italiano a partire dal 960, troviamo occorrenze di sopprimere e soppressione già dal XVII secolo. Oggi sia il verbo sia il sostantivo si trovano con alta frequenza nel linguaggio giuridico in tutte le accezioni indicate nel Devoto-Oli 2018 (a eccezione dei significati tecnici di altre discipline e dell’arcaico ‘calpestare’ di uso dantesco):

Posta questa premessa, il provvedimento di rimessione deduce che la norma censurata ha disposto la soppressione degli enti pubblici economici statali denominati Stazioni Sperimentali per l’industria […](Corte Costituzionale, sentenza n. 86 del 2017).

[…] a seguito della modifica legislativa intervenuta nel 1974, è stata completamente soppressa la frase secondo cui «le diverse violazioni si considerano come un solo reato […] (Codice penale, art. 81, Concorso formale. Reato continuato).

Il concorso causale della condotta del pubblico ministero e della polizia, che decisero l’intervento con la forza per liberare ostaggi sequestrati da detenuti in rivolta, e lo organizzarono e diressero in modo caotico e inefficace, nel processo causale di soppressione degli ostaggi, legittima la concessione delle attenuanti generiche a favore dell’imputato di omicidio volontario (Corte d’Assise di Genova, sentenza 17 febbraio 1978).

Si sopprimono istituzioni, uffici e posizioni lavorative ma anche parole, articoli, commi e infine le festività e, quando purtroppo è il momento, gli animali; il contesto è quasi sempre sufficiente a suggerire e disambiguare i diversi significati, tutti impiegati, più o meno frequentemente, anche nel linguaggio comune.

A fianco delle accezioni più note esiste, esclusivamente nel linguaggio giuridico, la locuzione soppressione di cadavere, oggetto dei dubbi dei nostri lettori. Se consideriamo i significati comuni già visti del verbo sopprimere è naturale che l’espressione sopprimere un cadavere susciti qualche perplessità; l’ambiguità semantica è alta e, nel tentativo di ricostruire il senso partendo dai significati delle singole parole che compongono la locuzione, viene da chiedersi se sia mai possibile abrogare, revocare, impedire la pubblicazione o addirittura uccidere un cadavere. No, naturalmente. All’interno della locuzione, sopprimere e soppressione assumono un significato diverso. Soppressione di cadavere è propriamente un tecnicismo specifico del diritto che indica il ‘reato consistente nel celare un cadavere, una parte di esso o le sue ceneri’ (cfr. GRADIT), definito dall’articolo 411 del Codice penale:

Chiunque distrugge, sopprime o sottrae un cadavere, o una parte di esso, ovvero ne sottrae o disperde le ceneri, è punito con la reclusione da due a sette anni. La pena è aumentata se il fatto è commesso in cimiteri o in altri luoghi di sepoltura, di deposito o di custodia. Non costituisce reato la dispersione delle ceneri di cadavere autorizzata dall’ufficiale dello stato civile sulla base di espressa volontà del defunto.

Si verifica dunque una estensione del significato comune di sopprimere: da ‘eliminare, cancellare in parte, abrogare’ (un’istituzione, una parte di un testo ecc.) a ‘far sparire, nascondere, occultare’, nel caso specifico un cadavere; in un certo senso, così come si può “far sparire” un ente, una posizione lavorativa, un articolo di un testo di legge, lo stesso si può fare per un corpo. Tale significato esiste unicamente all’interno della locuzione tecnica, che va però considerata nella sua interezza, nell’insieme delle parole che la compongono. È un fenomeno frequente nel linguaggio giuridico e in generale in tutti i linguaggi specialistici. Semanticamente ci avviciniamo all’accezione di sopprimere trovata nel GDLI e che rimanda al reato di soppressione di corrispondenza visto prima o a quello di soppressione di stato, altra locuzione giuridica che denota il ‘reato commesso da chi occulta la nascita di un bambino non facendone denuncia allo stato civile’ (cfr. GRADIT), disciplinato dall’articolo 566 del Codice penale. Dunque, come vediamo, sopprimere e soppressione sono termini assai produttivi nel lessico giuridico e hanno dato vita a diversi tecnicismi specifici.

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¿Sabías de dónde viene el nombre de los colores?

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Entre las primeras palabras que aprendemos al hablar o al estudiar cualquier idioma están los colores. Pero ¿sabes de dónde provienen estos nombres? Nuestra vida y nuestro entorno están llenos de colores y poco sabemos de su origen en español. Aunque todos estos tienen orígenes y significados distintos, guardan algo en común, la historia detrás es siempre interesante. La etimología es sumamente variada, aquí te contaremos de los colores principales.

ROJO

Procede del latín rusus, que a su vez viene de la raíz indoeuropea rudh o reudh, usada para definir el color de la sangre. También se considera que es de origen latino (de russeus, ‘rojo fuerte’), y que poco a poco, se convirtió en rojo, tal como lo llamamos actualmente en castellano.
Rojo no es la única palabra para referirse a ese color. También está carmesí, que viene del árabe y carmín procedente de la misma raíz. Bermejo es otro término para rojo, que ha tenido más éxito en el portugués vermelho o en el catalán vermell. Todos ellos vienen del latín vermículus, diminutivo de vermes, ‘gusano’, a causa del insecto que provoca las agallas que producían el tinte que daba el color.

AZUL

No hay una fecha exacta de cuando surgió este color según la información que existe la palabra azul viene del árabe lazward que quería decir lapislázuli, una piedra preciosa muy costosa de color azulado. Dicho vocablo se formó a partir del latín lapis y delazuli, forma genitiva del latín medieval lazulum, que evolucionó del árabe clásico lzaward, y este de lžavard, que era el nombre persa de la joya. En latín medieval encontramos también la palabra azurium y de ella derivaría azur. El color azul representa tranquilidad y es asociado con la infinidad y lo divino.

AMARILLO

Cuentan la palabra procede del latín amarus, probablemente por el color de la piel de los que tenían la enfermedad de la ictericia (que por cierto viene de la palabra griega para ‘amarillo’). Esta palabra significa amargo, triste. En castellano se empieza a utilizar este término en el siglo XI. Proviene de la palabra latina amarellus que significa pálido o amarillento y es un diminutivo de amarus.

VERDE

El verde se forma con la suma del amarillo con el azul. Tiene muchas tonalidades. Proviene de la raíz latina vir, la cual dio origen al adjetivo viridis (vigoroso, lleno de fuerza), para referirse sobre todo a plantas y árboles. Empezó a usarse en el castellano en el siglo XI. Además el color muestra algún derivado sorprendente: verdugo originariamente quería decir ‘rama verde’, que se usaba sobre todo para propinar azotes. Se asocia con la naturaleza, la paz y la tranquilidad.

NARANJA

El naranja es otro color secundario que nace de la mezcla del amarillo y el rojo. La palabra naranja deriva del árabe hispánico naranǧa, éste del persa nārang y a su vez del sánscrito nāraṅga.
El naranja es un color divertido, asociado a la diversión infantil y en compañía. En los diferentes países de habla hispana se pueden encontrar muchos localismos como por ejemplo “china” o “chinita” en Puerto Rico, “mamey” en República Dominicana, “naranjo” en Chile y “anaranjado” en Venezuela. El Diccionario de la lengua española de la RAE también recoge las palabras naranja, anaranjado y naranjado para designar este color. No se asegura si el color viene de la fruta o la fruta del color ¿qué piensas?

VIOLETA

El rojo y el azul se unen y forman el violeta, este color que es el que menos encontramos en la naturaleza toma su nombre, en las distintas lenguas, de las plantas o frutos de este color. La palabra violeta deriva del francés violette, este del francés antiguo viole, y este del latín vĭŏla, que designa a la planta homónima, y que es cognado con el griego ἴον (ion), ‘violeta’, probablemente derivado de un idioma mediterráneo pre-indoeuropeo.

BLANCO

Blanco es un color acromático, de claridad máxima y oscuridad nula. La palabra proviene del latín blancus, el cual se deriva del germánico *blank, que significa brillante; y este del protogermánico *blangkaz, que su definición seria brillar, deslumbrar. En latín antiguo a su vez habían dos palabras para llamar a este color: candidus o sea “blanco brillante” y albus, “blanco mate”. En el idioma castellano, el término blanco comienza a usarse hacia el año 1140. El color blanco es el color de la pureza, la santidad, la sencillez y la limpieza.

NEGRO

La palabra negro para este color se empieza a utilizar en el siglo XII. Aunque no se sabe el origen a ciencia cierta, se cree que proviene del protoindoeuropeo nekw-t-. Usada para describir al color más oscuro, que no refleja ninguna luz o la oscuridad. De éste pasó al latín niger, nigra, nigrum y del latín al castellano. Con el tiempo la palabra niger reemplazó a la palabra romana ater como referente del color negro… Así como el blanco, se suelen utilizar dos vocablos niger, para el negro brillante y ater para el negro mate.

… Llena tu vida de color…

Coméntanos ¿Cuál es tu color preferido?

TOP 10 DES CITATIONS SUR LA TRADUCTION

Nous vous livrons ci-dessous les citations les plus inspirantes que nous avons trouvées sur l’apprentissage des langues, le métier de traducteur et la traduction en général.

10. LA LANGUE DE L’EUROPE C’EST LA TRADUCTION — UMBERTO ECO

 

 

9. LA CONNAISSANCE DES LANGUES EST LA PORTE DE LA SAGESSE — ROBERT BACON

 

 

8. LES LIMITES DE MA LANGUE SONT LES LIMITES DE MON UNIVERS — LUDWIG WITTGENSTEIN

 

 

7. APPRENDRE UNE LANGUE C’EST UN PEU COMME DEVENIR QUELQU’UN D’AUTRE — HARUKI MURAKAMI

 

 

6. UNE LANGUE DIFFÉRENTE EST UNE VISION DIFFÉRENTE DE LA VIE — FEDERICO FELLINI

 

 

5. ÉTUDIER UNE AUTRE LANGUE CONSISTE NON SEULEMENT À APPRENDRE D’AUTRES MOTS POUR DESIGNER LES MÊMES CHOSES, MAIS AUSSI À APPRENDRE UNE AUTRE FAÇON DE PENSER CES CHOSES — FLORA LEWIS

 

 

4. LA PRATIQUE DE L’ÉCRITURE NE FAIT PAS DE CHACUN UN ÉCRIVAIN. CONNAÎTRE DEUX LANGUES NE FAIT PAS DE VOUS UN TRADUCTEUR.

 

 

3. UNE LANGUE VOUS PLACE DANS UN COULOIR POUR LA VIE. DEUX LANGUES VOUS OUVRENT TOUTES LES PORTES DU CHEMIN — FRANCK SMITH

 

 

2. LA TRADUCTION TRANSFORME TOUT AFIN QUE RIEN NE CHANGE — GÜNTER GRASS

 

 

1. VOUS PENSEZ QU’UNE BONNE TRADUCTION COÛTE TROP CHER ? ALORS N’IMAGINEZ PAS COMBIEN VOUS COÛTERA UNE MAUVAISE TRADUCTION.

 

How to Increase Your Book Sales with Accurate Literary Translations

Translating a work of fiction into other languages represents a chance to introduce your book to a wider audience and substantially increase book sales, whether you’re with a traditional publisher or an independent author looking to find new readers.

Why You Should Think About Translating Your Book

The main reason to expand to other countries comes down to sheer numbers. A book in English will only reach English speakers, which leaves out the rest of the world. Many works of literature have been translated into different languages so that people can enjoy them all over the world.

Some of them have gone on to become international bestsellers, including:

  • The Little Prince by Antoine de Saint-Expuéry (originally French)
  • The Girl with the Dragon Tattoo by Steig Larsson (originally Swedish)
  • The Alchemist by Paolo Coelho (originally Portuguese)
  • The Name of the Rose by Umberto Eco (originally Italian)
  • One Hundred Years of Solitude by Gabriel García Márquez (originally Spanish)
  • Harry Potter series by J.K. Rowling (originally English)
  • Anna Karenina by Leo Tolstoy (originally Russian)
  • The Count of Monte Cristo by Alexandre Dumas (originally French)
  • The Vegetarian by Han Kang (originally Korean)

General literature is not the only type of fiction that can find success in foreign markets. Authors of genre fiction, including thrillers, romance, mystery and fantasy, have come to realize there is large, untapped foreign market that is hungry for the type of books they write. They know there is money to be made and so many authors are having their English-language novels translated into German, French, Spanish and other languages.

The Challenges of Translating Fiction Into Foreign Languages

Of course, translating a book from its native language is not easy. In fact, it is perhaps the biggest challenge translators face. The trouble lies in the very essence of language itself, especially when it comes to fiction novels. Here are a few challenges translators face when translation works of fiction:

1) Translating Abstract Concepts – Author’s Style, Tone, Meaning

You can translate words literally, but conveying the ideas, style, tone, meaning, and even the spirit of the story is a totally different matter. A word in one language might not even exist in another. Then there are the idioms, phrases and references that are completely unique to one language or culture. Something that makes sense to an English speaker might not convey any meaning to a Spanish speaker…and vice versa.

2) Translating Across Different Sentence and Word Structures

Another difficulty is that languages can have entirely different sentence and word structure. For example, Arabic is read from right to left and subject pronouns are included in conjugated verbs. Deborah Smith, the translator of the Korean novel The Vegetarian, relates that Korean uses a “subject-object-verb language so a lot of information is delayed until the end of the sentence.” Korean authors also rely heavily on repetition and ambiguity, which might not have the same poetic effect when translated into English. Capturing the essence of the source language, while making the story flow and be relatable to readers in other languages all comes down to the knowledge and skill of the translator.

The Importance of Using A Native Speaker for Fiction Translation

The knowledge of a culture is important in foreign language literary translation, which is why it is vital to use a translator who is a native speaker and who fully understands the cultural references, humor and subtext in the book in its original language. You need someone who is capable of conveying the meaning of a story, while still staying true to the original intent. In many ways, an expert fiction translator has to be a gifted author in his or own right. At the same time, it is also vital to be accurate and avoid mistakes in translation, or worse, adding or making up things that were never in the original.

For a more in-depth look at the challenges of translating a specific work of fiction – in this case J.K. Rowling’s Harry Potter series – check out our blog here.

Let ALTA Help You Find A Professional Fiction Translator

Translating a work of fiction into other languages represents a unique challenge that should only be handled by experts. ALTA Language Services has a network of 2000+ native language literary translators in over 100 languages who can interpret the meaning and spirit of a novel, while maintaining the accuracy and integrity of the source material. For more information about translating a work of fiction, contact us today.


Kristin Wallace is a USA Today Bestselling fiction author and advertising copywriter who is addicted to learning and writing about language, culture and art around the world. She lives and works in sunny Miami, Florida.

Posted by  on September 27, 2018

I caratteri cinesi? Non li conoscono più nemmeno i cinesi

Il cinese è così difficile che non lo sanno nemmeno i cinesi – almeno, se ci si limita al campo della scrittura. Lo dimostra questo istruttivo video di Asian Boss: in una normale strada cinese l’intervistatrice, anche lei cinese, ferma degli ignari passanti (cinesi), li interroga sulle loro competenze grammaticali di cinese (e tutti sostengono di essere ferrati) e poi, perfida, li sottopone al test di cinese: devono scrivere, senza errori, qualche parola di uso comune.

Risultato? Nessuno riesce a imbroccarle tutte.

Come è possibile? Da un lato – e vanno perdonati per questo – il sistema di scrittura cinese è complicato e, soprattutto, è stato creato apposta per esserlo. Con i suoi 50mila caratteri (ma secondo altri sono ben 80mila) non consente di essere conosciuto nella sua interezza. Un vocabolario normale ne comprende 20mila, mentre una persona, per esprimersi con correttezza e pienezza in tutte le situazioni della vita, può accontentarsi di ottomila. Per leggere un giornale ne servono solo due-tremila. A noi, per fortuna, bastano 26 segni per poter descrivere tutte le parole esistenti (e anche quelle inesistenti).

Dall’altro lato, nell’iperdigitalizzata Cina, la scrittura a penna (mezzo usato nel video) è utilizzata solo a scuola. Una volta fuori, tutti scrivono e comunicano solo attraverso strumenti elettronici, smartphone e computer. Questo permette loro di mantenere inalterata la loro capacità di leggere e riconoscere i segni, ma di perdere quella di elaborarli. “Quante stanghette ha “uccello”?”. Tante, visto che il segno è questo: 鳥. E in cinese semplificato è questo: 鸟.

Insomma, un po’ la tecnologia, un po’ la lingua stessa costringono i cinesi a fare errori più o meno ogni volta che scrivono a penna. Un problema che quaggiù, dal basso della nostra semplice e democratica scrittura alfabetica, non abbiamo (forse).

Come è possibile? Da un lato – e vanno perdonati per questo – il sistema di scrittura cinese è complicato e, soprattutto, è stato creato apposta per esserlo. Con i suoi 50mila caratteri (ma secondo altri sono ben 80mila) non consente di essere conosciuto nella sua interezza. Un vocabolario normale ne comprende 20mila, mentre una persona, per esprimersi con correttezza e pienezza in tutte le situazioni della vita, può accontentarsi di ottomila. Per leggere un giornale ne servono solo due-tremila. A noi, per fortuna, bastano 26 segni per poter descrivere tutte le parole esistenti (e anche quelle inesistenti).

Dall’altro lato, nell’iperdigitalizzata Cina, la scrittura a penna (mezzo usato nel video) è utilizzata solo a scuola. Una volta fuori, tutti scrivono e comunicano solo attraverso strumenti elettronici, smartphone e computer. Questo permette loro di mantenere inalterata la loro capacità di leggere e riconoscere i segni, ma di perdere quella di elaborarli. “Quante stanghette ha “uccello”?”. Tante, visto che il segno è questo: 鳥. E in cinese semplificato è questo: 鸟.

Insomma, un po’ la tecnologia, un po’ la lingua stessa costringono i cinesi a fare errori più o meno ogni volta che scrivono a penna. Un problema che quaggiù, dal basso della nostra semplice e democratica scrittura alfabetica, non abbiamo (forse).

Quand Donald Trump envahit la littérature jeunesse

Au fil de mes traductions de romans jeunesse, un curieux phénomène a commencé depuis quelques mois à attirer mon attention. D’abord anecdotique, il se confirme de lecture en lecture. Il est courant, et normal, que l’actualité inspire les auteurs, transpire dans les textes et vienne les colorer ou les enrichir. Mais ce phénomène-ci, à l’image du personnage qui l’inspire, commence à prendre des proportions quelque peu démesurées.

Cela a commencé courant 2017, alors que je traduisais un roman jeunesse délirant et échevelé dans lequel un jeune garçon de douze ans se retrouve (bien malgré lui) au prises avec les dieux grecs et les constellations du zodiaque. Bref, voilà qu’à un moment de cette histoire nous apprenons qu’Hypnos coule des jours tranquilles sous les traits d’un milliardaire nommé Richard Trumpington. Il vit dans un château au décor ultrakitsch plein de fauteuils rococo dorés, et d’ailleurs Thanatos lui fait cette remarque : « On dit que l’argent n’achète pas le bon goût. Tu confirmes le dicton. » L’auteure n’est pas allée chercher bien loin l’inspiration pour décrire son milliardaire vulgaire, mais ma foi, cela ne posait pas de problème de traduction particulier, et c’était plutôt amusant.

Cette traduction rendue, passons à la suivante : le premier tome d’une adorable et hilarante série d’épouvante-pour-rire pour les 9-12 ans. Dans cette histoire farfelue où les personnages sont des vampires, des fantômes, des yétis et autres créatures des ténèbres, le prince Tangine est « un sale gosse pourri gâté », un enfant tyrannique et insupportable, capricieux et cruel, atteint de folie des grandeurs. « Tu ne t’intéresses qu’à toi-même », lui reproche notre sympathique héroïne. Jusque-là, rien d’insolite. Mais au fil de la lecture, certains détails attirent notre attention.
À force d’exaspérer tout le monde, Tangine se prend un coup de poing « en plein dans les cheveux », après quoi ses domestiques mettent une heure à « remettre sa coiffure en place ». Tiens, tiens.

 

Le prince Tangine. Ses cheveux ont beaucoup d’importance.

En outre, il est dit deux fois que Tangine a de toutes petites mains. Les soupçons de la traductrice sont confortés. En effet les « petites mains » sont devenues une blague classique à propos de Donald Trump depuis qu’un adversaire dans la course à l’investiture a fait remarquer, lors d’un meeting : « Vous avez vu ses mains ? Elles sont minuscules. Et vous savez ce qu’on dit des hommes qui ont des petites mains : on ne peut pas leur faire confiance. » Ce n’est pas du tout ce qu’on dit des hommes qui ont des petites mains, et Trump l’a bien compris, répondant que ses mains étaient d’une taille normale « et le reste aussi, pas de problème de ce côté-là, vous pouvez me croire. » (Le débat volait haut.)
D’autre part, Tangine est le fils du roi Vladimir, un vampire. Certes, on peut y voir une référence à Vlad Drakul ou Vlad l’Empaleur, à l’origine de la légende des vampires, mais… l’auteure écrit bien Vladimir, pas Vlad. N’en profiterait-elle pas pour railler astucieusement la fascination de Trump pour Poutine ?
Enfin, vers la fin de l’histoire, le doute n’est plus permis : un majordome prend un malin plaisir à écorcher le nom du tyrannique prince Tangine. Il l’appelle « Tangerine » (mandarine), puis « Tanning Cream » (crème à bronzer). Pour la traductrice, c’est un casse-tête et une mauvaise nouvelle, car à ce moment-là de sa lecture elle comprend enfin pourquoi l’auteure a appelé son personnage Tangine. C’était pour amener ce « tangerine », un qualificatif souvent employé aux USA pour décrire la curieuse teinte orangée du visage présidentiel.
Dans les romans pour cette tranche d’âge, les noms de personnages sont souvent adaptés. Ainsi, dans ce livre, la citrouille apprivoisée s’appelle Trouille (Squashy en anglais), la jeune yéti Florence Spudwick devient Florence Patata, bref tout est permis pourvu que les noms sonnent. Mais que faire de ce Tangine spécifiquement trumpesque ? soupire la traductrice éplorée qui n’a pas encore trouvé de solution idéale.

Et ce n’est pas terminé. Abordons maintenant ce troisième volet d’une trilogie de Noël, pour la même tranche d’âge. Dans cette série de romans qui se déroulent au pays des lutins du père Noël, le méchant est le père Vodol. Déjà dans les deux premiers volumes – écrits avant la présidentielle étasunienne de 2016 –, Vodol était un lutin assoiffé de pouvoir qui divisait pour mieux régner et attisait les haines dans la population.
Mais dans le troisième tome, l’attaque se précise. Vodol est rédacteur en chef d’un nouveau journal, intitulé La Vérité, dont il se sert pour répandre sa propagande à coups de fausses nouvelles – fake news en VO, vous l’aurez deviné. « Il ne s’intéresse qu’à lui-même », prévient là aussi l’héroïne. Il n’a de cesse d’attiser chez les lutins la peur de l’étranger afin de mieux asseoir sa domination. « Il pensait que pour vendre un journal il fallait pousser les lutins à haïr les humains. Faire en sorte qu’ils ne pensent qu’à eux et qu’ils craignent les étrangers. Une fois, il a lancé une campagne pour construire un mur qui s’étendrait d’une mer à l’autre et qui traverserait toute la montagne, rien que pour empêcher les humains de passer. » Plus tard dans l’histoire, Vodol complote contre le père Noël avec le lapin de Pâques, afin de make Easter great again (rendre sa grandeur à Pâques), et une foule déchaînée scande « Lock him up » – « En prison ! » – contre le père Noël. L’allusion est transparente.
Physiquement, Vodol (qui fut imaginé avant l’élection de 2016) n’a rien de commun avec le 45eprésident des États-Unis. Mais regardons de plus près ce nouveau personnage, l’un des journalistes de La Vérité : un certain Spicer, décrit comme un « petit lutin blond au ventre en tonneau ». Et observons maintenant Sean Spicer, le premier porte-parole de la présidence Trump, abondamment moqué dans les médias américains pour ses interventions balourdes et ses costards engoncés… Quelque chose me dit que l’illustrateur n’a pas dessiné cette raie sur le côté par hasard.

 

 

 

 

 

 

 

Le lutin Spicer                                                                                                           Sean Spicer

Là encore, la traductrice se trouve face à un dilemme. Les lutins de l’histoire n’étant pas spécialement anglo-saxons, leurs noms ont été traduits et adaptés. De même que les rennes du père Noël ont repris leurs noms traditionnels français – Éclair, Tonnerre, Comète… –, les lutins s’appellent dans la VF Traintrain, Grelot, Pépin… Mais que faire de ce « Spicer » ? En anglais, Spicer est un nom bien trouvé pour un lutin : le spice qu’on y entend peut évoquer les délicieux parfums de Noël, les odeurs de vin chaud et de pain d’épice. Il est possible de rebaptiser ce lutin-là Cannelle, par exemple, mais le clin d’œil à l’actualité sera perdu. Bien sûr, Sean Spicer est peu connu en France, et d’ailleurs, même dans la VO, la blague ne s’adresse qu’aux parents. Mais l’auteur en est sans doute content, de sa blague… faut-il se résoudre à l’en priver dans la version française ? Au risque de lui laisser croire qu’on n’a pas saisi l’allusion ? (Où va se loger le mince orgueil du traducteur !) Ou considérer que ces piques ne concernent que le public américain, même si l’auteur est britannique ?

Si en l’espace de quelques mois je suis tombée sur ces trois cas (plus un autre, dans un roman pour jeunes adultes, par le même auteur que le dernier cité ci-dessus), j’imagine qu’il y en a bien d’autres dans les manuscrits jeunesse en ce moment. On comprend facilement ce qui pousse les auteurs à larder ainsi leurs romans de références à l’improbable président américain. Un besoin d’exorciser leur sentiment d’impuissance horrifiée devant la montée en puissance du personnage ; le désir d’apporter leur modeste pierre à l’édifice de la resistance (à prononcer avec l’accent US : c’est le terme très sciemment employé en ce moment là-bas par les milieux progressistes) ; l’urgence de la mise en garde, l’envie de faire passer un message aux générations futures – dans les livres, les méchants sont punis ou trouvent le chemin de la rédemption, et l’espoir reprend le dessus à la fin. Et sans doute, aussi, ce phénomène de sidération, cette sorte de traumatisme collectif obsessionnel qui met Trump sur toutes les lèvres et dans tous les crânes.
La littérature jeunesse n’est certes pas là pour protéger ou isoler les enfants de la réalité, bien au contraire. Cependant, on peut éprouver un pincement au cœur en voyant la lourde silhouette de cet individu s’imposer ainsi jusqu’entre ses pages. Car s’il y a une chose pour laquelle le bonhomme est doué, c’est faire parler de lui. Il voulait devenir l’homme le plus célèbre du monde : il y est arrivé. Faut-il encore qu’il serve de modèle à tous les grands méchants ? Espérons en tout cas que les futurs historiens de la littérature jeunesse ne verront là qu’un épiphénomène très, très limité dans le temps.

Valérie Le Plouhinec

Ouvrages cités :
Who let the Gods Out, Maz Evans, à paraître chez Nathan.
Amelia Fang and the Barbaric Ball, Laura Ellen Anderson, à paraître chez Casterman
Father Christmas and Me, Matt Haig, ill. Chris Mould, à paraître chez Hélium.

¿DEBO ESPECIALIZARME SI QUIERO VIVIR DE LA TRADUCCIÓN?

Una de las preguntas que los traductores que están empezando nos hacen más a menudo es sobre la especialización: si es o no necesaria, cómo se llega a ella y cuándo se debe empezar. En esta entrada responderemos a estas dudas.

Aprovechando que la mayoría de nuestros clientes y amigos abogados están de vacaciones, vamos a dedicar este mes de agosto a hablar de forma intensiva sobre cuestiones profesionales del mundo de la traducción.

En septiembre retomaremos los artículos sobre inglés jurídico con una nueva aportación a nuestro diccionario.

Comenzamos hoy esta miniserie respondiendo a una de las dudas que con más frecuencia nos trasladan las personas que están empezando en este mundo.

Es una entrada larga, avisamos.

Otra advertencia: no busques estadísticas, ni datos refrendados por concienzudos estudios de mercado en este artículo. Lo que encontrarás a continuación es solo nuestra opinión personal.

Aunque esperamos que, al menos, la tengas en cuenta.

¿Debo especializarme para poder vivir de la traducción?

Respuesta corta: un  rotundo.

Respuesta larga: hay muchas formas de vivir de la traducción y de construir una carrera profesional. Podría decirse que tantas como traductores, pues cada uno tiene la suya.

Pero, por desgracia, no todo el mundo vive igual de la traducción y no todo el mundo disfruta de su profesión tanto como le gustaría.

Según nuestra propia experiencia, y la de otros muchos colegas con los que hablamos a diario, los traductores que más disfrutan de su trabajo, y a los que casi nunca les falta, son los más especializados.

Por otro lado, lo que también vemos es que los traductores que más se quejan de las tarifas, de los clientes, del intrusismo, etc., son los que, o bien no están nada especializados, o bien llevan tiempo dedicándose a varias cosas sin terminar de decidirse nunca por ninguna de ellas.

Ya contamos en este blog que estamos convencidos de que el futuro de la traducción pasa por la especialización. Lee esta entrada (aquí) si quieres saber por qué.

Nunca nos cansaremos de repetirlo: para lo fácil ya está Google.

Seguro que no quieres ser reemplazado por un algoritmo antes de que puedas hacerte un hueco en este mercado, ¿verdad? Especialízate.

¿Cuándo debo comenzar a especializarme?

Al principio, cuanto antes, mejor. Pero no desde el primer día.

Déjanos explicarte.

Es cierto que el camino de la especialización no es sencillo. Salvo que vengas de otro mundo profesional y tengas una carrera en otra disciplina, especializarse puede ser complicado.

Pensamos que tomar esta decisión en el primer año de tu carrera como traductor no es lo más aconsejable (salvo que lo tengas muy claro y, aun así, ojo: no descartes cambiar de opinión).

Uno o dos años en tus inicios traduciendo de todo pueden ser muy útiles. Te servirán para conocer por dentro el mundo de la traducción profesional, saber cuáles son los campos y los tipos de textos más demandados, darte cuenta de cuáles te gustan más y, de paso, coger un poco de experiencia en algunos de estos campos.

Después de haber trabajado algún tiempo como generalista (preferiblemente en los inicios de tu carrera), te recomendamos que elijas uno o dos campos para profundizar.

Dedícale el tiempo necesario a esta decisión y elige bien, ya que durante los próximos años vas a invertir mucho tiempo y esfuerzo para formarte en el campo o los campos que elijas.

Otro consejo que nos permitimos darte es que no elijas más de dos y, a ser posible, elije que estén relacionados. Por ejemplo: traducción médica + farmacéutica; jurídica + financiera; ingeniería + arquitectura; informática + telecomunicaciones.

(¿Te has dado cuenta de que no mencionamos la TAV ni la literaria? Otro día te contaremos por qué).

Deben ser campos complejos, cuanto más, mejor (recuerda: para lo fácil ya está Google y tú no quieres pasarte el día quejándote de las tarifas ni de la competencia, ¿verdad?); y que tengan demanda, obviamente. De poco sirve especializarse en la cría del caracol malayo coreano-español.

¿Cómo se llega a la especialización?

Ya te hemos adelantado lo que pensamos: los primeros años son clave.

Si en ellos traduces un poco de todo irás viendo lo que más te llena, los campos en los que te sientes más a gusto y en los que no te importa pasarte horas investigando.

Por otro lado, trabajar para agencias de traducción que te vayan mandando trabajos variados te servirá para saber cuáles son los textos más demandados. Algunas agencias están especializadas en ciertos campos. Por ello, si trabajas para varias empresas diferentes tendrás una mejor perspectiva.

Ten los ojos y los oídos muy abiertos. Participa en redes sociales, acude a congresos de traducción o reuniones de traductores, habla con otros colegas (cuantos más mejor). Escucha a todo el mundo, cada uno tiene su historia.

Con el tiempo empezarás a tener un cierto feeling de cuáles son las áreas de especialidad que el mercado demanda y en cuáles de ellas no te importaría pasarte los próximos años de tu vida.

Una vez que te hayas decidido tendrás que estudiar mucho, mucho, mucho. Más de lo que has estudiado nunca.

Bueno, ¡os estáis pasando!, pensarás. Nope.

Recuerda que has elegido un campo complejo del saber y que tú eres un trabajador del conocimiento. Vas a tener que pasarte el resto de tu vida aprendiendo.

Si te decides, pongamos por caso, por la traducción jurídica, estarás dando el salto a un mundo, el Derecho, donde hay jueces, abogados y fiscales que llevan décadas investigando sobre Derecho penal, concursal, laboral o fiscal y confiesan que les queda un mundo por saber.

A ti no se te va a exigir ese nivel de profundidad, pero deberás dominar bien sus principales conceptos, su jerga y sus tecnicismos para que tus traducciones les resulten útiles a tus clientes.

Cuanto más sepas mejor traducirás, cuanto mejor traduzcas más trabajo tendrás, cuanto más trabajo tengas mejores tarifas podrás pedir…

Esto no es un secreto: los especialistas de cualquier campo son los que más ganan.

¿Tengo que estudiar otra carrera?

Si quieres hacerlo y puedes (es decir, si tienes el tiempo y los recursos necesarios), adelante. Obtendrás muchos conocimientos y una gran base. Pero no es obligatorio.

Hay muchas formas de aprender sobre la materia que has elegido para especializarte. Muchas de ellas gratuitas y otras con un precio razonable. Deberás tener criterio y constancia.

Los másteres (no los de traducción, sino los específicos de cada campo) son una buena opción. Nosotros, sin embargo, te recomendaríamos que empezaras por un curso más breve de 3-4 meses que te permita profundizar en el campo elegido.

Cuanto más práctico, mejor y cuanto más acceso tengas al tutor que lo imparte, también. El máster puede venir después.

En esta entrada te damos 5 consejos para elegir un buen curso de formación.

Some words sound lovelier than others—and learning a new language can teach you why

When we listen to a foreign language, we may hear sounds which do not exist in our mother tongue, and may sound different from anything we have ever heard before. The first time we hear something new, a foreign sound or word—even an unknown word in our own languages—something in it may provoke delight or revulsion.

Often with familiar words, it’s almost impossible to simply look at one and separate it from its meaning. Words like “putrid” or “disgusting” have nasty connotations already built in to our subconscious and therefore meaning will play a key role.

However, when we learn a new language, we encounter words free of associations and connotations in our mind. This presents an opportunity for researchers to determine what’s in a word itself that the mind finds pleasing or unpleasant.

From a very young age, everyone is exposed to music and to language, and every culture has its local variants of both. We all perceive words in different ways. How we feel about different words, whether we like the sound of some of them more than others, will depend mostly on what experiences in our life we attach to them and how people in our community use those words.

The British linguist David Crystal conducted some research on phonaesthetics, the study of what makes certain sounds beautiful, and noted that the most popular words have positive connotations—no surprises there. But what’s interesting is what these words have in common: two or three syllables, short vowels, easy-to-produce consonantal sounds such as /l/, /s/ and /m/.

None of these sounds—or “phonemes”—require much energy or effort to be pronounced and so evoke natural and peaceful tones. Some examples are: autumn, melody, lullaby, velvet, luminous, tranquil, marigold, whisper, gossamer, caress.

For centuries, the repetition of certain sounds in literature has been popular in poetry, often with the aim of mimicking nature to elicit moods and feelings. Both in English and Spanish poems, words where /s/ is a prominent sound symbolize the hissing sound of the the wind or the sea, and words with nasal sounds like /m/ are soothing and mellow, like a soft murmur.

Separating meaning from words

In the English language, the very same word will sound differently when pronounced by speakers of different areas, within the UK and abroad. Geography not only affects the way a word sounds but also its meaning—like “close”, which describes proximity and the feeling in the air immediately before a storm.

When we hear a word, the way we perceive it will be influenced not only by denotation but also by connotation. Understandably, words associated with positive experiences will be perceived as pleasing.

However, the way our experiences influence what words we like remains fluid throughout life. For the last 20 years or so, I have witnessed this with my Spanish beginner students.

If we effectively “conquer” a word, it becomes a word we like to say and hear. Sounds that at the start of the course British students struggled with – /θ/, /x/, /ɲ/, the rolled /r/ and /ʧ/—because they are scarce or do not exist in their mother tongue, became more popular by the end of the year.

New and positive experiences thus bring new “love” for words with initially tricky consonants, such as esperanzaizquierdaagujetas and contraseña.

There are also words which students used to find challenging at the start of their course but after some months have grown confident using and pronouncing with the kind of pride that arises from knowledge, hard work, and learning, regardless of the word’s connotations. This is particularly striking in the example of “desafortunadamente.” This means “unfortunately” in Spanish. Desafortunadamente therefore has obvious negative connotations, but learners of a new language are more likely to experience disassociation with a word from its meaning, which rarely happens in your mother tongue. Speakers of a new language can therefore enjoy a word on its own merits, disregarding its connotations.

When I teach pronunciation and intonation to Spanish beginners, I use the word “jeringuilla” as an example. It has all the makings of a word our brains love—syllables that flow, short vocalic sounds, /n/ and the strong Spanish /x/, which offers a worthy challenge for a native English speaker—but imagine their surprise when they learn it actually means “syringe”…

This article is republished from The Conversation under a Creative Commons license. Read the original article.

Perché lo spagnolo ha la punteggiatura invertita (e perché dovrebbe abbandonarla)

Tutti hanno notato che le domande e le esclamazioni sono precedute da segni come ¿ e ¡, un uso poco diffuso nel resto del mondo e del resto in calo nella stessa Spagna. Forse è tempo di voltare pagina

26 Settembre 2018 – 05:54

Non è l’unica lingua a farlo, ma quasi. Lo spagnolo ha, tra le sue regole, quella di mettere punti esclamativi e di domanda (ma rovesciati) anche all’inizio della frase. Una frase del tipo Come stai? Diventerebbe, in italiano, ¿Come stai?, con effetti un po’ disorientanti, ma nemmeno troppo.

La regola è antica: vennero consigliati dalla Real Academia Española nel 1754 nel suo prontuario di ortografia del castigliano, ma entrarono nell’uso dopo molto tempo. E, a dire la verità, non sembra che abbiano intenzione di resistere ancora a lungo: sono sempre di meno le situazioni in cui le persone rinunciano alla punteggiatura invertita, a partire dalle chat sui social.

L’idea originaria, poi, è stata tradita fin dall’inizio. Nel 1668 il filosofo inglese John Wilkins aveva proposto di usare il segno esclamativo invertito (questo: ¡) per le frasi ironiche – a quanto sembra, nemmeno all’epoca chi leggeva riusciva sempre a coglierla – ma il suo suggerimento rimase inascoltato. Gli spagnoli decisero, nemmeno fosse un linguaggio di programmazione, di riprenderlo e metterlo all’inizio di frase esclamativa. Così come il punto di domanda rovesciato sarebbe stato a inizio di frase interrogativa.

Secondo alcuni renderebbe più semplice la lettura (“Così capisco prima che è una domanda, o un’esclamazione”, dicono), ma la verità è che si tratta di un orpello inutile. Tutti i lettori del mondo sono in grado di capire il senso e l’intonazione di una frase senza avere una marca iniziale. Tanto è vero che oltre allo spagnolo usano questi segni solo lingue che hanno legami culturali con la Spagna: cioè il Galiziano (ma hanno cambiato anche loro), il Catalano (con alcune eccezioni) e il Waray (che parlano nelle Filippine).

E poi gli spagnoli stessi, a partire da alcuni sudamericani come Pablo Neruda, si stanno via via allontanando dall’uso. Perché il progresso, arrivato alla fine anche laggiù, è anche questo.

THE ABC’S OF RESPONDING TO CRITIQUE FROM A JOURNAL EDITOR OR REVIEWER

After hours of research, writing, rewriting, and editing, you’ve finally crossed the Rubicon and submitted your manuscript for review. The customary academic review process begins with an initial review from a journal editor. The editor reads the entire text and then decides what to pass on to reviewers. Because those reviewers — two, three, and sometimes even more — determine whether a piece moves forward in the publication process, they act as the gatekeepers to publication.

Oftentimes you may feel discouraged by reviewers who send a lengthy critique, question the novelty of your study, or attack your methodology. You may feel that they don’t even understand your research. Rather than responding with a curt email or being discouraged by comments and critique from reviewers, consider these ABCs of responding to criticism.

A: Always be polite

It’s easy to get frustrated with comments, questions or endless back-and-forth with reviewers.  Remember that the peer review process is designed to improve the quality of your research, not to “win” or demonstrate to the reviewer that your knowledge of the subject is deeper than theirs.  Reviewers are critiquing your work, not critiquing you. Your responses should not reflect any bitterness or anger, but should be objective responses to their feedback.

Remember that editors and reviewers are acting with the intent to help authors improve their study. Take advantage of their advice! In fact, a long list of detailed reviewer comments usually means that a reviewer has spent a lot of time evaluating your work and attempting to provide constructive feedback. Most reviewers are volunteers who don’t get paid for their work but do this work in order to promote research in their field. Be sure to thank reviewers for their effort, even if you disagree with some of their feedback.

B: Be open to suggestions

After spending countless hours working on your text, you likely have a special affinity for it. An outside observer with a fresh set of eyes is sometimes best able to look at your article and point out areas for improvement.

As anyone that’s gone through the academic editing process knows, few submissions are accepted unconditionally. Virtually all journals require authors to address and respond to the reviewers’ comments. You do not have to make all the changes that the reviewers suggest, but you do have to address all of their concerns. If you are unwilling to change something, you should provide a compelling reason. Therefore, consider strongly all of the suggestions you receive.

C: Critique the critique?

The purpose of a review is to identify ways to improve your research and to help you think critically about your findings in a new way. It is easy to poke holes in an argument; however, it is much harder to suggest how to fix it.

good review is more than just a simple “revise,” “reject,” or “accept.”  It should be multifaceted and meaningful and should guide you to a better argument structure or content. If your review is curt or cursory, it may lack the ability to do that. Politely push your reviewers to provide these details if they haven’t done so already. If you disagree with a reviewer’s critique, you should say so in a polite way. Be clear and focused, and provide as many details as necessary to help the reviewer understand your line of reasoning. Addressing a reviewer’s critique doesn’t always mean accepting his or her opinion. Oftentimes it means better expressing your own.

D: Deep breath

Initial irritation is only natural. Put the review away for a few days and then read the comments again carefully and objectively to ensure that you have clearly understood the reviewers’ concerns.

Once you have taken a moment, focus on the particular details the reviewers discuss. These details are important because they will help the reviewer understand how you have addressed their expressed concerns. A methodical, step-by-step response to any comments will help polish your work and impress your reviewer or editor. Becoming defensive and rejecting all of the reviewers’ comments out of hand will likely do more harm than good.

E: Establish if it’s “revise and resubmit” or rejection.

You can receive three types of responses to your submission: outright rejection, an invitation for you to revise and resubmit, or, ideally, unconditional acceptance. Because unconditional acceptance is rare, it is important to determine if you have been given an outright rejection or an opportunity to revise and resubmit.

If your work is rejected altogether, you may have chosen the wrong publication. Do some further research into the journal, its readership, and what they publish. Alternatively, a rejection may mean there is a flaw in your work. Use this rejection as an opportunity to think critically about your findings. In this case, any initial reviewer comments will be helpful in figuring out how to reconfigure the piece, if you decide to do this. In these cases, re-submitting the same article to the same publication is not recommended. However, there may be other avenues for publication — don’t get discouraged!

If it is a case of revise and resubmit, you should implement the suggested revisions and prepare your response describing what you have done. Address each point in order. If reviewers number their comments, use this system for your responses. If you have not made a suggested change, give the reasons. Where you have made changes, provide page and paragraph references so that the editor or reviewer can find them easily. You’re well on your way to publication — and helping the reviewers see that their changes have been implemented will speed up the process!

F: Follow up

If you submitted your manuscript but still have not received a decision, consider checking with the editor about the status of your submission. Because the standard amount of time from submission to decision making varies among different journals and fields, reach out to colleagues with experience or check the journal website to determine whether you have been waiting longer than usual.

Even if you have heard from the reviewers, following up is still critical. A thorough, clear, and polite response to editors’ and reviewers’ comments will help to reduce the likelihood of rejection or another round of review, saving you additional time and moving you closer to acceptance. If they set you a deadline for re-submitting your article, be sure to do so on time. If you are concerned that you won’t be able to, ask for an extension as soon as possible.

Being able to accept and embrace critique, whether from journal editors, reviewers, or peers is critical to personal growth — and to the development of strong academic work. Keeping these ABC’s in mind will help you navigate the review process and continue on the journey to publication.