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I vantaggi di parlare diverse lingue

Di questi tempi moderni, a quasi tutti i professionisti viene richiesto la conoscenza fluente di più di una lingua. Sia alle elementari, che alle superiori e all’università, gli studenti devono scegliere un corso di lingue per poter essere promossi. Tuttavia, i vantaggi di parlare più di una lingua va ben oltre la sfera meramente professionale.

Parlare correntemente una seconda lingua (o una terza o una quarta…) può aiutare a connettersi alle proprie radici e retaggio, si sceglie di parlare una lingua parlata dalle precedenti generazioni della propria famiglia. Negli Stati Uniti, tutti hanno un parente immigrante o dall’Europa, dall’Africa, dall’Asia, dal sud America ecc. Imparare la lingua che la propria famiglia parlava prima di imparare l’inglese può certamente essere un modo per capire meglio la storia e i legami familiari.

Inoltre, imparare una lingua straniera è anche salutare per il proprio cervello. Degli studi hanno dimostrato che le persone che parlano diverse lingue hanno una memoria migliore e corrono meno rischi di sviluppare l’Alzheimer. Una volta diventato bilingue è anche più facile diventare polivalente passando da una lingua ad un’altra.

Altri benefici riguardano le differenze culturali, in quanto le persone che parlano diverse linguesono in grado di cogliere le sottigliezze che si perdono nella traduzione, senza dimenticare la comprensione dei film, della musica, e della letteratura senza bisogno di sottotitoli, doppiaggio e traduzioni.

Per concludere, studiare le lingue straniere e parlare una seconda o terza lingua in più della propria lingua madre comporta tanti chiari benefici…e nessun inconveniente.

Fonte: Articolo pubblicato il 2 febbraio 2015 su Trusted Translations

Traduzione a cura di :
Diringbin Sandrine
Dott.ssa magistrale in giurisprudenza madrelingua francese e mediatrice
Cassano d’Adda (MI)

Perché lo spagnolo ha la punteggiatura invertita (e perché dovrebbe abbandonarla)

Tutti hanno notato che le domande e le esclamazioni sono precedute da segni come ¿ e ¡, un uso poco diffuso nel resto del mondo e del resto in calo nella stessa Spagna. Forse è tempo di voltare pagina

26 Settembre 2018 – 05:54

Non è l’unica lingua a farlo, ma quasi. Lo spagnolo ha, tra le sue regole, quella di mettere punti esclamativi e di domanda (ma rovesciati) anche all’inizio della frase. Una frase del tipo Come stai? Diventerebbe, in italiano, ¿Come stai?, con effetti un po’ disorientanti, ma nemmeno troppo.

La regola è antica: vennero consigliati dalla Real Academia Española nel 1754 nel suo prontuario di ortografia del castigliano, ma entrarono nell’uso dopo molto tempo. E, a dire la verità, non sembra che abbiano intenzione di resistere ancora a lungo: sono sempre di meno le situazioni in cui le persone rinunciano alla punteggiatura invertita, a partire dalle chat sui social.

L’idea originaria, poi, è stata tradita fin dall’inizio. Nel 1668 il filosofo inglese John Wilkins aveva proposto di usare il segno esclamativo invertito (questo: ¡) per le frasi ironiche – a quanto sembra, nemmeno all’epoca chi leggeva riusciva sempre a coglierla – ma il suo suggerimento rimase inascoltato. Gli spagnoli decisero, nemmeno fosse un linguaggio di programmazione, di riprenderlo e metterlo all’inizio di frase esclamativa. Così come il punto di domanda rovesciato sarebbe stato a inizio di frase interrogativa.

Secondo alcuni renderebbe più semplice la lettura (“Così capisco prima che è una domanda, o un’esclamazione”, dicono), ma la verità è che si tratta di un orpello inutile. Tutti i lettori del mondo sono in grado di capire il senso e l’intonazione di una frase senza avere una marca iniziale. Tanto è vero che oltre allo spagnolo usano questi segni solo lingue che hanno legami culturali con la Spagna: cioè il Galiziano (ma hanno cambiato anche loro), il Catalano (con alcune eccezioni) e il Waray (che parlano nelle Filippine).

E poi gli spagnoli stessi, a partire da alcuni sudamericani come Pablo Neruda, si stanno via via allontanando dall’uso. Perché il progresso, arrivato alla fine anche laggiù, è anche questo.

7 metodi originali per imparare le lingue

Per imparare le linguel’unica strada che porta sicuramente al successo è mantenere la motivazione alta. Ci crediamo talmente tanto che abbiamo scritto decine di articoli sul tema. E non ci stanchiamo mai di trovare modi alternativi, divertenti ed efficaci per imparare le lingue senza annoiarsi e correre il rischio di abbandonare.

Per imparare le lingue usa metodi alternativi

Mischiare le attività di apprendimento è la chiave per rimanere motivati, dicevamo. Ed è proprio così! Prima di tutto, ti permette di esercitarti su tutti gli aspetti fondamentali per imparare le lingue. Infatti, se alterni film e podcast, corsi online, esercizi di vocabolario, scambi linguistici ecc, ad esempio, in poco tempo vedrai progressi sia nella comprensione che nella produzione. Che significa? Che saprai parlare e capire, scrivere e leggere nella lingua che stai imparando. E senza dimenticare la cosa più importante: ci sarai riuscito divertendoti.

7 modi originali per imparare le lingue

1. Avere delle conversazioni informali nella lingua straniera

È uno dei modi più semplici per imparare le lingue e praticare grazie alle situazioni reali che troverai. Internet offre tante possibilità di comunicare con dei nativi (scambi linguistici orali o via chat). Puoi anche avere delle conversazioni più brevi in contesti reali: ad esempio, se impari le espressioni spagnole per prenotare un hotel… prova a chiamare un hotel in Messico! Solo per divertirti (e praticare!) ma assicurati di non prenotare per errore ?

2. Creare una lista personalizzata di articoli di giornale o blog da leggere

Un buon metodo per arricchire il tuo vocabolario sfruttando quello che leggi! Ci sono molti servizi online e app per fare delle liste di riviste e blog da seguire. Ad esempio, puoi partire da questo nostro articolo sulla stampa online per imparare le lingue.

3. Ascoltare mp3 e podcast mentre ti alleni

Sii sempre alla ricerca di nuovi modi per ottimizzare il tuo tempo libero! Ad esempio, quando vai a correre puoi ascoltare dei podcast o una radio online in lingua. Un ottimo modo per restare attivi e praticare la lingua allo stesso tempo!

4. Gioca ai videogiochi nella lingua che studi

A proposito di modi alternativi per imparare le lingue! La maggior parte dei videogiochi sono in inglese e poi tradotti nelle altre lingue. Ti abbiamo preparato un elenco dei migliori videogiochi per imparare le lingue e per sapere come usarli per sfruttarli al massimo nel tuo apprendimento.

5. Cantare in una lingua straniera

Se sei un grande appassionato di musica, migliora le tue competenze linguistiche grazie alle canzoni! È un metodo molto divertente e arricchente. Qui trovi i migliori siti per imparare le lingue con la musica.

6. Cucinare usando dei video in lingua

Se ti piace cucinare, e sei sempre alla ricerca di ricetti di altri paesi, una buona idea è trovare dei siti internet di ricette nella lingua che studi. Come il metodo 3, è pure un ottimo modo di migliorare varie competenze. Alla fine avrai migliori competenze di ascolto, un vocabolario più ampio e un ottimo pasto! Se vuoi un po’ di ispirazione, parti da queste colazioni del mondo ?

7. Circondati con le migliori risorse nella lingua straniera

Ci sono tantissimi strumenti per immergerti totalmente nella lingua senza uscire di casa. Ad esempio, cambia la lingua del tuo telefono, cambia la lingua del menu della televisione o abbonati a un giornale cartaceo online, nella lingua che stai imparando.

Fonte

Nicola Gardini: amare le lingue è amare un dio imperfetto

Nicola Gardini è insegnante, scrittore, pittore, poeta, traduttore: tanti volti per una grande passione, quella per le parole impresse – su carta o su tela poco importa, come poco importa la lingua in cui sono scritte, dal latino all’inglese all’italiano al segno di penna e di colore a olio. Se con i suoi saggi sul latino ha ricordato a molti di noi perché abbiamo scelto gli studi classici (e non ce ne siamo mai pentiti), con la sua raccolta Tradurre è un bacio è riuscito ad ammantare di poesia entusiasmi, delusioni, routine e aspirazioni di noi traduttori.

In questa intervista ci racconta cosa significa per lui amare una lingua, tradurla e farne una lettura e una letteratura personale; perché chi ama le parole «le crede migliori di lui e perciò capaci di migliorarlo».

Nel suo saggio Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile racconta, tra molte altre cose, come si è innamorato del latino, facendo un po’ innamorare tutti noi lettori; inoltre confessa di amare molto anche l’inglese e, come si intuisce tra le righe, il cinese e senz’altro l’italiano. Cosa significa innamorarsi di una lingua? E trova che questa passione cambi nel tempo, come accade alle lunghe storie d’amore?

Ogni amore cambia nel tempo, si approfondisce, comprende di più l’altro. Così va anche per l’amore delle lingue. Perché poi qualcuno le ami e qualcuno no, questo è parte del mistero in cui tutti gli amori accadono. Una lingua è cosa di tutti. Eppure l’amore di una lingua è anche qualcosa di altamente privato ed esclusivo. Per quanti la conoscano e la pratichino, la lingua che un individuo si ritrova ad amare non riduce la sua capacità di contraccambio: è sempre tutta di quell’individuo amante. Ha qualcosa della divinità, totale in ogni momento, in quel singolo cuore, in quella singola preghiera. In fondo, avere amore per la lingua (o le lingue) è un modo di pregare. E chi o che cosa si prega? Il significato. Gli si chiede di ascoltarci, di assisterci, di illuminarci. Quante più lingue si conoscono, tanto più chiaramente questo chiedere dimostra di poggiare su un sogno. Il significato non è un assoluto. Amare le lingue è amare un dio imperfetto, che ci insegna la sua imperfezione e al tempo stesso la sua vitale voglia di esprimersi attraverso noi, di affidare proprio a noi che lo invochiamo il compito della perfezione.

Nel libro scrive: «In verità, come fin da allora appresi, quando si studia una lingua […] è giusto andare ovunque la curiosità ci ispiri di andare, seguire qualunque pista, fidarsi di qualunque svolta». Oltre alla curiosità e a una certa dose di incoscienza, cosa contraddistingue secondo lei gli amanti delle lingue in generale e i traduttori in particolare?

Gli amanti delle lingue – e i traduttori – sono individui molto diversi. Facciamo una prima grande ripartizione: alcuni girano tutto il tempo col dizionario sotto il braccio, controllano tutto, anche quello che già sanno di sapere; altri no, improvvisano, si fidano della loro memoria, tirano a indovinare, cercano il senso in altro che le singole parole. C’è il pedante e c’è il poeta. Tutti e due servono, e sarebbe giusto che ognuno avesse di questo e di quello. Amare è un’arte, cioè una disciplina, un impegno, che ha per obiettivo la bellezza. Chi ama le lingue, indipendentemente dalle sue inclinazioni e dalle sue capacità, studia la bellezza delle parole. E allora, rispetto a quelli che le parole le credono solo mezzi per la comunicazione dei bisogni materiali, si può dire che l’amante delle lingue è uno che fa attenzione alle parole, che le crede migliori di lui e perciò capaci di migliorarlo.

«Non mi piaceva fissare sulla pagina una versione. Sentivo che la scrittura serviva solo a legittimare l’imperfezione della resa, a fissare gli eventuali errori. Meglio affidare tutto alla mente. Lì la versione poteva migliorarsi, anzi, continuava a migliorarsi, il senso diventava parte della memoria, dissipandosi le vaghezze e riempiendosi i buchi». Oggi che è anche traduttore di professione e ha scritto un meraviglioso inno d’amore alla traduzione (Tradurre è un bacio), ha cambiato idea rispetto a quand’era uno studente liceale?

Non mi definirei traduttore di professione. Ho pubblicato, sì, diverse traduzioni di poesia, e penso molto al senso del tradurre. E non sto mai senza tradurre. A differenza dei traduttori professionisti, io traduco solo quello che scelgo io, solo quello che ha con me una qualche affinità. Oggi le traduzioni le scrivo, ecco la differenza principale. Tradurre oggi è per me, senz’altro, una delle forme della scrittura letteraria; della MIA scrittura letteraria.

 Il latino e il greco vengono spesso considerate lingue “morte”, ma lei nel libro afferma che questa definizione si basa su un pregiudizio, derivato da «un’errata concezione della vita delle lingue». Quanto ha contato il latino nello studio di altre lingue e nella sua formazione di traduttore? E ha riscontrato delle differenze tra imparare e tradurre una lingua antica e una lingua moderna?

Il latino che io pratico è quello letterario. È lingua scritta per definizione. Mi ha insegnato sicuramente a vedere la dimensione scritta anche delle lingue moderne che poi ho appreso e in cui ho anche vissuto buona parte della mia vita, come l’inglese e il francese. Per me, alla fine, non c’è nessuna differenza tra Tacito e Proust. Parlare le lingue è un’altra faccenda. Molti traduttori, si sa, non parlano o parlano a fatica le lingue che traducono. Non è assurdo: la scrittura è una dimensione a sé. È stile, quindi ricerca, costruzione, volontà di scoperta.

Che consiglio si sente di dare agli studenti divisi tra l’interesse per gli studi classici e le pressioni di una società sempre più orientata verso un’idea di “utilità pratica” degli studi? E a chi, forse ancor più coraggiosamente, decide di fare della traduzione il proprio mestiere?

Posso solo dire che gli studi classici, oltre alle conoscenze che danno, pongono quesiti fondamentali sulla vita umana, sulla storia, sulle società, sul linguaggio, sui sentimenti. Non c’è niente di pratico in questo. Ma neanche nello studio della biologia o della fisica c’è nulla di pratico. Il sapere non è mai pratico. Tecnologia e conoscenza (inclusa la scienza), non si possono confondere, considerare una cosa. O non si vede l’originalità nemmeno di un Einstein, e le profonde affinità che legano le ricerche degli umanisti e degli scienziati – fisici, chimici o biologi che siano. Il sapere è sempre immagine e visione prima che applicazione pratica, ed è retrospettivo, guarda verso le origini. Solo così può stabilire con qualche certezza la direzione del cammino che tutti– spirito, materia, universo – stiamo compiendo. Il traduttore non aderisce in fondo a un paradigma diverso da questo: ha di fronte un inizio, il testo da tradurre, e più in là un punto d’arrivo. Il paradigma qui, però, sembra capovolto: perché ignoto è il punto d’arrivo. La cautela, l’attenzione e l’impegno a capire, tuttavia, sono gli stessi dell’archeologo o del biologo che indaghino il percorso dell’umanità. Per questo mi piace pensarmi (anche) traduttore.

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