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Mi oppongo, vostro onore! (ovvero, perché non mi vergogno di tradurre bestseller)

Qualche giorno fa, parlando con una collega, ci siamo trovate immerse in una discussione vecchia come il cucco: la collega raccontava di un messaggio in cui si era imbattuta in non so quale social. Nel messaggio, un giovane aspirante traduttore sosteneva che fosse inutile cercare di diventare traduttori editoriali, perché tanto il mercato della traduzione è marcio e i libri importanti vengono assegnati sempre ai soliti noti. Ora, potremmo discutere per ore del buco nero di nonsense creato dalla sola idea di parlare di traduttori e notorietà nella stessa frase (come diceva l’argutacollega® in questione, già solo pensarci fa scoppiare il cervello), e potremmo parlare per ore anche dell’idea di un mercato editoriale non meritocratico che va avanti a raccomandazioni e spintarelle, manco fossimo tutti olgettine che aspirano a entrare in Mediaset. I due argomenti meriterebbero post dedicati, anche perché queste recriminazioni sono un po’ come l’uovo e la gallina: è nato prima il giovane traduttore che accusa i vecchi di monopolizzare il mercato o il vecchio che accusa il giovane di non riuscire a farsi strada e di prendersela con chi non c’entra nulla?

I libri importanti, la merda, i corgi

Ma non è di questo che voglio parlare oggi. Perché di quella frase mi ha colpito soprattutto l’accento messo da quel ragazzo sull’impossibilità di raggiungere i “libri importanti”.  Magari, sembrava sottintendere la sfuriata, è pure possibile tradurre quelli meno importanti,  ma che ce frega? I capolavori sono tutti presi, i romanzi profondissimi sono già assegnati, a noi ce rimane la merda (c’è chi l’apprezza, poi, oh).
Mi sono chiesta allora se sia veramente brutto o disdicevole o addirittura umiliante tradurre libri che non facciano arrivare l’autore a due passi dal Nobel, che non finiscano tra le mani di un intellettuale barbuto che li rileggerà per la sessantaseiesima volta con la pipa in bocca e i piedi poggiati su un Welsh corgi disteso davanti al caminetto.
Insomma, in due parole: noi che traduciamo libri “di consumo” siamo davvero traduttori di serie B? Dovremmo forse vergognarci di quello che facciamo?
Ovviamente non ce l’ho con quel ragazzo in particolare: una volta ero come lui. Anzi, ero proprio lui. Quando ho cominciato a tradurre non mi sono posta neanche il problema di voler tradurre libri importanti. Davo per scontato che sarebbe successo. Per me l’equazione era piuttosto semplice: traduttore editoriale uguale intellettuale uguale letterato uguale alta letteratura. Tutto il resto era robaccia buona per foderare la gabbietta dei criceti.

Il lavoro nobilita l’uomo (e la donna)

Poi, vedete, ho cominciato a lavorare. Ed è quando la traduzione smette di essere un mito e diventa un lavoro vero,forse, che la prospettiva cambia. Perché a quel punto mi hanno offerto un horror per ragazzi. E poi un romanzo d’amore. E un thriller. E infine quello che mi è più  caro, quello che guardo con più indulgenza (ma anche, sì, un po’ di bonario “ma che cazzo dici??”): il BESTSELLERONE. Il romanzo da ombrellone, il libro da mille milioni di copie vendute pure in Uganda che prevede intrighi e sparatorie, studiosi americani con la barba sfatta e cardinali corrotti che parlano con la bocca piena de salame, e che a un certo punto (non ve lo aspettereste mai proprio mai!) ci svela che IN VATICANO C’È UN TERRIBILE SEGRETO!!
Mi sono confrontata con la persona che ero  un tempo e mi sono chiesta se a oggi mi imbarazzi tradurre libri del genere.
La risposta ovviamente è no.  Al di là delle ovvie considerazioni sul fatto che tradurre non è una missione, è un lavoro, e che quindi a volte può piacerci e a volte ci piacerà meno (a qualcuno è toccato ritradurre il Mein Kampf, non sarò certo io a lamentarmi perché i protagonisti del mio romanzo passano intere giornate a guardarsi nelle palle degli occhi), la verità è che ritengo che chi  snobba i bestselleroni guardi al problema da una prospettiva sbagliata (e del resto, come dice un’altra argutacollega®, il vantaggio dei libri di ampio consumo è che a differenza dei capolavori sono tanti, come le bollette).

I libri che la gente legge davvero

Al giorno d’oggi per me la narrativa di consumo equivale ai telefilm americani, e nei telefilm americani c’è sempre un avvocato che dice una cosa che io trovo illuminante.
Quando l’avvocato in questione viene assunto per difendere un efferato serial killer coprofago, un politico palazzinaro e mafioso e anche un po’ pelato, o comunque qualcuno con cui lo spettatore non può simpatizzare, un altro personaggio gli chiede se non si vergogni a difendere un uomo (o una donna) del genere. Al che l’avvocato si spolvera i pelucchi dal bavero della giacca, si liscia i capelli foltissimi, si erge in tutta la sua possanza statunitense e tuona: “Questa è l’America! Anche i delinquenti hanno diritto a un processo equo! Se ce ne dimentichiamo la giustizia è morta!”.
Ecco, io mi sento, nei confronti dei bestselleroni, come quell’avvocato si sente nei confronti dei suoi assistiti.  Sono cioè convinta che anche i libri poracci abbiano diritto a una buona traduzione.
Anzi, a maggior ragione ne hanno diritto: questi sono i libri, come mi ricorda ogni tanto Chiara, che la gente legge davvero. Per ogni quasi-Nobel che entra nelle case dei lettori forti accoccolandosi tra pile e pile di amici libri-importanti, ci sono almeno una cinquantina di TERRIBILI SEGRETI IN VATICANO!! che entrano nelle case di gente che normalmente legge poco o non legge affatto.
Mi chiedo quindi se noi che traduciamo questi romanzi non abbiamo forse una responsabilità ancora più grande di chi traduce il Nobel: perché in fondo noi entriamo in moltissime case,  ed entrando nelle case e nelle teste di chi normalmente non legge granché possiamo essere lo strumento che porterà quelle persone a leggere ancora, a leggere di più (senza contare che questi libri sono i guilty pleasures di molti di noi, non solo lo sfogo del lettore debolissimo che ha rotto la TV).

Libro cattivo o buon prodotto?

E badate bene: non parlo qui di libri brutti, mal scritti, impossibili da tradurre (perché quelli ci sono e sono faticosissimi e lo sappiamo). No, io parlo di libri discreti ma fini a se stessi, libri che sono considerati brutti perché non sono profondi, perché (torniamo all’inizio) non sono importanti.
Sono anzi spesso buoni prodotti, ben confezionati: e forse noi traduttori ce ne allontaniamo disgustati proprio perché non ci piace pensare che non tutti i libri con cui lavoriamo sono messaggeri di un cambiamento epocale, portatori di illuminazione per bodhisattva da biblioteca: a volte sono solo, appunto, un prodotto ben confezionato. Forse ci sembra che ammetterlo renda il nostro lavoro meno nobile. Ma di nuovo: io non ci trovo niente di poco nobile nell’accompagnare un non lettore nel mondo della lettura,  se anche per farlo dobbiamo immergerci nei TERRIBILI SEGRETI DEL VATICANO!!.
Questo post, insomma, è per tutti i colleghi che difendono il serial killer coprofago e il palazzinaro pelato, che portano in libreria i femminili, i thrilleroni, i bestselleroni, i giallacci e tutte quelle cose volatili e belle che non sembrano abbastanza importanti a chi comincia a lavorare, ma che a me, invece, col senno di poi, sembrano importantissime.

Tradurre o l’incontro tra culture

Impegnarsi a “cercare verso la civiltà le possibili vie di un ritorno alla politica, che la maggior parte delle società contemporanee sono venute a mancare, denunciare l’essenzializzazione delle culture, l’etnicizzazione e la comunitarizzazione della politica”. […], non si tratta forse di un obiettivo mobilitante per un’ambizione profondamente umanistica? La traduzione è una delle condizioni (necessarie ma non sufficienti) per superare il discorso identitario. Essa offre anche opportunità di confronto tra diverse realtà culturali e solleva una serie di questioni relative sia al funzionamento dei settori della produzione culturale che agli scambi  internazionali, questioni che troppo spesso vengono discusse oggi solo dal punto di vista della “globalizzazione” o ” mondializzazione”. Da qui l’interesse euristico di aprire “un nuovo campo teorico nella sua trasversalità e modalità di applicazione […..] per sviluppare una valida alternativa alle nozioni superate di “dialogo delle culture” o multiculturalità”. Abbiamo ora un insieme di riflessioni stimolanti che seguono approcci simili, come gli studi di traduzione e, soprattutto, gli studi sui processi di “trasferimento culturale”.

Come sottolineano Johan Helbron e Gisèle Shapiro: “Il campo di ricerca degli studi di traduzione, che è stato istituito a partire dagli anni ’70 in alcuni piccoli paesi, spesso multilingue (Israele, Belgio, Paesi Bassi), è diventato, almeno in alcuni luoghi, una specialità a sé stante, con le sue cattedre, l’insegnamento, i manuali e le riviste specializzate. Questo lavoro rappresenta un cambiamento nell’approccio adottato. Invece di comprendere le traduzioni solo o principalmente in relazione a un testo originale, un testo di partenza o una lingua di partenza, e di identificare attentamente le deviazioni la cui rilevanza dovrebbe poi essere determinata, gli studi di traduzione si sono sempre più concentrati su questioni che riguardano il funzionamento delle traduzioni nei loro contesti di produzione e di ricezione, cioè nella cultura di destinazione. È questa stessa questione del rapporto tra i contesti di produzione e di accoglienza che sta alla base degli approcci in termini di “trasferimento culturale”, che mettono in discussione anche gli attori di questi scambi, istituzioni e individui, e la loro inclusione nei rapporti politico-culturali tra i paesi studiati. »

Fonte : Articolo scritto da Jean-François Hersent e pubblicato nel giugno 2003 sul sito BBF (Bulletin des Bibliotèques de France)

Traduzione a cura di:
Ayoub Benzarti
Traduttore indipendente
Tunisi

Come gestire una terza lingua in un testo

Cosa succede se traducendo un testo da una lingua A a una lingua B, notiamo che il testo di partenza è fortemente condizionato anche da una terza lingua C? Come ci comportiamo?

Ovviamente ogni caso è sui generis, quindi mi soffermerei su un esempio in particolare.

Mi è capitato di tradurre per una ricerca parte di un libro francese ambientato in Corea del Sud (Ida aupaysduMatin Calme di Ida Daussy) che conteneva quindi molti riferimenti culturali e linguistici coreani. In particolare, all’interno del testo erano inseriti termini coreani scritti “alla francese”: erano cioè scritti non solo nel nostro alfabeto, ma si adattavano alle regole di pronuncia francesi. Questo significa per esempio che un termine come 라면 (leggasi /ra.mjən/) era trascritto come lamyone, per adattarsi al meglio alle regole di pronuncia francesi. Possiamo notare quindi che è stata aggiunta una e finale (che in francese non si legge e che permette così che on non si legga con suono nasale) e che la prima lettera  (che si può trascrivere sia con r sia con l a seconda della sua posizione all’interno della parola) è stata trasformata in l nonostante si trovasse a inizio sillaba, in modo che non venisse letta con la tipica r francese.

Si può essere d’accordo oppure no con la scelta dell’autrice di utilizzare un metodo di traslitterazione “inventato” e adattato alle regole di pronuncia della propria lingua invece di utilizzare il metodo di traslitterazione ufficiale, ma non è questo il punto. Durante la traduzione da francese a italiano, il traduttore non può assolutamente mantenere i termini derivanti dal coreano così come li ha inseriti l’autrice. Per un lettore italiano, infatti, una trascrizione del genere non avrebbe senso e anzi, lo allontanerebbe ancora di più dal termine originale (soffermandoci sempre sulla stessa parola presa come esempio, un lettore italiano leggerebbe infatti “lamione”). Il traduttore dovrebbe quindi scegliere di utilizzare un metodo di traslitterazione diverso che potrebbe essere o un metodo simile a quello utilizzato dall’autrice, “inventandone” uno che si adatti alle regole di pronuncia italiane, oppure utilizzare il metodo di traslitterazione ufficiale.

E qui ci troviamo davanti a un altro problema: come fa il traduttore a sapere che la traslitterazione dei termini coreani non è corretta (o almeno non per un pubblico diverso da quello francese)? Solitamente infatti si sceglie un traduttore che sia a conoscenza della lingua di partenza e della lingua di arrivo, senza tenere conto degli eventuali terzi elementi culturali presenti nel testo. Un traduttore a conoscenza della sola lingua francese, pur documentandosi sulla cultura coreana, non avrebbe potuto sapere che questi termini non seguivano la traslitterazione ufficiale del coreano e quindi avrebbe probabilmente lasciato quei termini invariati. Solamente un traduttore a conoscenza di entrambe le lingue avrebbe potuto notare questo dettaglio importante e agire di conseguenza nella stesura della traduzione italiana.

Tutto questo è per sottolineare l’importanza di tutti gli elementi linguistici e culturali all’interno del testo, che non sono mai da sottovalutare nella scelta del traduttore. In un caso come questo, è dunque necessario che il testo venga tradotto da una persona che non solo conosca alla perfezione la lingua di partenza e quella di arrivo, ma che conosca almeno un minimo anche la terza lingua presente al suo interno.

Articolo scritto da:
Marianna Demarchi
Traduttrice freelance (EN/FR>IT)
Novara

7 differenze tra professionisti e dilettanti

Specializzazione. Un professionista ha un raggio d’azione ristretto: ciò gli permette di approfondire costantemente le proprie conoscenzee di concentrarsi sull’obiettivo. Trattare dieci argomenti non correlati fra loro significa non acquisire una reale competenza in nessuno di essi.

Accuratezza. Un professionista traduce il senso, non le parole: non ha alcuna paura di trasformare una costruzionenegativa in affermativa,unire frasi o spezzarleper migliorare la fluidità del testo ed eliminare i calchi senza alcuna pietà. Un testo tradotto parola per parola èil primo indicatore del fatto che il traduttore è più concentrato sulla produzione che sulla qualità.

Esperienza e formazione.Una laurea aiuta, ma non è indispensabile. L’esperienza è più importante: da quanto tempo lavora quel traduttore? Che tipo di testi traduce? Ha ricevuto dei feedback positivi dai suoi clienti? Potete starne certi: per essere un buon traduttore non è necessario un curriculum di dieci pagine, ma è pur vero che alcuni risultati si raggiungono solo con l’esperienza.

Tariffe. Un professionista sa quanto vale il proprio lavoro, e non ha paura di chiedere un extra per le urgenze o di abbassare le tariffe in caso di grossi volumi.

Onestà. Un professionista può usare la traduzione automatica come bozza, ma in tal caso si parla di “post editing”– e non più di “traduzione”. È un’attività diversa, che implica tariffe,requisiti e metodi di lavoro diversi. Un professionista non consegna un lavoro di post-editing spacciandolo per una vera e propria traduzione: non è etico, e comunque si nota immediatamente.

Comunicazione. Un professionista è in costante contatto con il cliente. Fa domande, propone nuovi termini da inserire nei glossari e segnala se la memoria di traduzione o il testo originale presentano qualche falla. Se è in ritardo con la consegna se ne assume la responsabilità e avvisa subito il cliente, provando a trovare insieme a lui una soluzione.

Tecnologia. Infine, un professionista sa come usare adeguatamente gli strumenti di traduzione assistita: così facendo, può concentrarsi sulla traduzione e lasciare alla macchina i processi più banali e che è possibile automatizzare.

Fonte: Articolo scritto da Nadia Hidalgo Diaz e pubblicato il 17 ottobre 2017 sul blog di Smartcat

Traduzione a cura di:
Sara Galluccio
Traduttrice editoriale, letteraria, marketing, turismo
Genova

Traduzioni un tanto al chilo

Di Chiara

La triste storia che voglio raccontarvi oggi risale a qualche anno fa, quando ho deciso di ricominciare a tradurre a tempo pieno da freelance (ho usato “tradurre” e “tempo pieno” nella stessa frase, non sentite le grasse risate del pubblico in sottofondo?). Completamente a digiuno di qualsiasi nozione di personal branding, self-marketing e soprattutto senza alcuna attenta pianificazione preliminare, la prima cosa che ho fatto è stata sbattermi come una carpa nello stagno: ho scritto a tutti quelli che conoscevo, ottenendone feedback pressoché pari allo zero, e mi sono registrata a settecento miliardi di comunità virtuali per liberi professionisti dell’editoria e della comunicazione, le cui inutili notifiche a distanza di anni ancora intasano la mia webmail. Sapete tutti come funzionano questi gironi infernali? Se non lo sapete ve lo spiego io: tu ti iscrivi, carichi il tuo curriculum e da lì in poi ricevi le offerte di lavoro via posta elettronica. Su alcuni puoi anche prendere parte ai forum di discussione e, almeno per quel che riguarda i traduttori, consultare liberamente i glossari online disponibili per le varie specializzazioni. Personalmente, nessuno dei lavori che mi sono procacciata finora arriva da lì (per quanto tra i colleghi che conosco ce ne siano un paio che hanno ottenuto attraverso siti come ProZ, per esempio, un contatto poi sviluppatosi indipendentemente). Tanto per cominciare, per sottoporre il tuo preventivo devi avere nella maggior parte dei casi un account Premium a pagamento, e in generale la scelta spesso si riduce a una lotta al ribasso in cui chi chiede meno vince, a scapito della qualità (my 2 cents, ovviamente).

Comunque, com’è come non è, una volta conquistato l’invidiabile primato di “donna il cui curriculum è presente su più siti web e comunità virtuali al mondo”, un bel giorno mi è arrivata, direttamente sulla mia posta personale di povera disperata, una mail con elettrizzante Oggetto: “Recruitment”. Il mittente era un’agenzia di traduzioni, o meglio un LSP (Language Services Provider) estero. Vi riassumo in breve il contenuto del messaggio: quest’azienda – la “migliore” (!!!) disponibile online – forniva traduzioni da e per oltre 80 lingue, con certificazione di qualità ISO:12345ealtreduemilacifrehetantochilosachevuoldire, e aveva “ideato” e sviluppato un software per la gestione in automatico delle richieste di traduzione ed editing da parte delle aziende di tutto il mondo. La notizia più pazzesca, in tutto questo, era però che pur potendo contare su un database di oltre 5000 linguisti esperti in ogni possibile ambito dello scibile umano voleva ME! Mi sarebbe bastato scaricare e installare il software miracoloso, selezionare la mia combinazione linguistica e i campi del sapere in cui mi sentivo più ferrata, completare una breve prova di traduzione online e una volta “accettata” avrei ricevuto in tempo reale le mail di notifica con le commesse che facevano al caso mio. Quasi dimenticavo, parte fondamentale: il compenso. La tariffa era – spero di ricordare male ma non credo – 0,03 centesimi a parola. Da totale sprovveduta che si era sempre occupata di traduzione editoriale e non aveva idea del costo di una traduzione tecnica, abbozzai un calcolo assurdo e totalmente scentrato rapportando il totale delle parole al prezzo di una cartella (lo sbagliai credo, peraltro) e conclusi che la cifra era tutto sommato dignitosa (state calmi: oggi so che era semplicemente scandalosa, ça va sans dire). I soldi per i lavori effettuati mi sarebbero arrivati all’inizio del mese successivo a quando li avevo svolti direttamente sul mio account PayPal. Comodo, no?

A quel punto – cuoricino, io sono una che fantastica molto, l’ho ribadito più volte – già immaginavo  un moltiplicarsi esponenziale dei miei introiti. No davvero, c’è bisogno di chiederselo? Ovviamente sarei stata la più veloce, la più affidabile, la più scrupolosa… l’Harry Potter della traduzione  tecnica 2.0. E qui casca l’asino, perché il procedimento esatto era in realtà questo: una volta loggata sul sistema, le istruzioni erano di visionare il materiale relativo alla commessa, appurare se eri in grado di gestirla e quindi cliccare su “Available for the task” e attendere l’assegnazione. C’era anche un messaggio minatorio con tanto di asterisco rosso, del tipo “Mi raccomando, eh: guardatevi bene i documenti perché poi il project manager lo sa quanto ci avete messo a cliccare, e se si accorge che non l’avete spulciato ahiahiahi, non ve lo assegna!”. Macché. La verità è che nei cinque/sei mesi in cui ci ho provato – stando connessa tutto il giorno, a un certo punto iniziando a cliccare in tempi sempre più brevi, anche prima dell’arrivo delle mail di notifica, senza guardare il materiale – non ho beccato l’ombra di un lavoro. C’era sempre qualcuno che se lo aggiudicava prima, nell’istante esatto in cui veniva inserito (visionando accuratamente le risorse di partenza? Verificando di essere in grado di svolgerlo? Boh, ho i miei dubbi). E accettando di lavorare a quelle condizioni.

Da questa disavventura e da esperienze successive sono giunta, nel tempo, ad alcune conclusioni.

Punto primo (lo so, la scoperta dell’acqua calda): ognuno deve fare il suo. Se sei una traduttrice editoriale, a meno che non senti chi già lo fa, non ti procuri le competenze necessarie, non ti fai un’idea dei compensi che puoi ritenere equi, non ti butti nelle traduzioni tecniche. Realtà come quella in cui sono incappata io verosimilmente prosperano sull’ignoranza, anche di chi è in buona fede.

Punto secondo: le agenzie di traduzione veramente valide, probabilmente, non hanno più di cinquemila traduttori nel proprio database, men che meno specializzati in ogni ambito dello scibile umano. Lavorano con pochi fornitori, che ne hanno guadagnato la fiducia grazie alla professionalità del loro lavoro. E li pagano il giusto.

Terzo e ultimo punto, ma questa è più che altro una domanda che mi faccio e vi faccio, e sarei grata a chi, sapendone di più, volesse darmi lumi in merito. Ok per il sistema di macellazione di un povero suino ben pasciuto, ok per la costruzione di macchinari e per tutte le attività in cui possono esistere un metodo e degli standard specifici per valutare la qualità di un processo, ma la certificazione ISO, corredata da cifre altisonanti, è applicabile a un ambito volatile e soggettivo come la traduzione? Esiste un ISO del tradurre e dello scrivere?

Postilla per i sanguinari paladini del giusto compenso (che oggi peraltro mi contano tra le loro fila): prendete questa storia – della cui pochezza mi rendo conto – con l’indulgenza che si deve a un qualcosa che in fondo non si è mai concretizzato nella realtà. È un po’ come essere sposata e però sognare di accoppiarsi selvaggiamente con Hugh Jackman: non è tradimento, giusto?

Credits: L’immagine del post è stata scattata ad hoc da Chiara, e secondo noi rende bene il senso di tutta questa storia. A proposito, secondo voi cosa c’è scritto a monitor? FARE o FAKE? Bicchiere mezzo pieno o bicchiere mezzo vuoto?

Nicola Gardini: amare le lingue è amare un dio imperfetto

Nicola Gardini è insegnante, scrittore, pittore, poeta, traduttore: tanti volti per una grande passione, quella per le parole impresse – su carta o su tela poco importa, come poco importa la lingua in cui sono scritte, dal latino all’inglese all’italiano al segno di penna e di colore a olio. Se con i suoi saggi sul latino ha ricordato a molti di noi perché abbiamo scelto gli studi classici (e non ce ne siamo mai pentiti), con la sua raccolta Tradurre è un bacio è riuscito ad ammantare di poesia entusiasmi, delusioni, routine e aspirazioni di noi traduttori.

In questa intervista ci racconta cosa significa per lui amare una lingua, tradurla e farne una lettura e una letteratura personale; perché chi ama le parole «le crede migliori di lui e perciò capaci di migliorarlo».

Nel suo saggio Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile racconta, tra molte altre cose, come si è innamorato del latino, facendo un po’ innamorare tutti noi lettori; inoltre confessa di amare molto anche l’inglese e, come si intuisce tra le righe, il cinese e senz’altro l’italiano. Cosa significa innamorarsi di una lingua? E trova che questa passione cambi nel tempo, come accade alle lunghe storie d’amore?

Ogni amore cambia nel tempo, si approfondisce, comprende di più l’altro. Così va anche per l’amore delle lingue. Perché poi qualcuno le ami e qualcuno no, questo è parte del mistero in cui tutti gli amori accadono. Una lingua è cosa di tutti. Eppure l’amore di una lingua è anche qualcosa di altamente privato ed esclusivo. Per quanti la conoscano e la pratichino, la lingua che un individuo si ritrova ad amare non riduce la sua capacità di contraccambio: è sempre tutta di quell’individuo amante. Ha qualcosa della divinità, totale in ogni momento, in quel singolo cuore, in quella singola preghiera. In fondo, avere amore per la lingua (o le lingue) è un modo di pregare. E chi o che cosa si prega? Il significato. Gli si chiede di ascoltarci, di assisterci, di illuminarci. Quante più lingue si conoscono, tanto più chiaramente questo chiedere dimostra di poggiare su un sogno. Il significato non è un assoluto. Amare le lingue è amare un dio imperfetto, che ci insegna la sua imperfezione e al tempo stesso la sua vitale voglia di esprimersi attraverso noi, di affidare proprio a noi che lo invochiamo il compito della perfezione.

Nel libro scrive: «In verità, come fin da allora appresi, quando si studia una lingua […] è giusto andare ovunque la curiosità ci ispiri di andare, seguire qualunque pista, fidarsi di qualunque svolta». Oltre alla curiosità e a una certa dose di incoscienza, cosa contraddistingue secondo lei gli amanti delle lingue in generale e i traduttori in particolare?

Gli amanti delle lingue – e i traduttori – sono individui molto diversi. Facciamo una prima grande ripartizione: alcuni girano tutto il tempo col dizionario sotto il braccio, controllano tutto, anche quello che già sanno di sapere; altri no, improvvisano, si fidano della loro memoria, tirano a indovinare, cercano il senso in altro che le singole parole. C’è il pedante e c’è il poeta. Tutti e due servono, e sarebbe giusto che ognuno avesse di questo e di quello. Amare è un’arte, cioè una disciplina, un impegno, che ha per obiettivo la bellezza. Chi ama le lingue, indipendentemente dalle sue inclinazioni e dalle sue capacità, studia la bellezza delle parole. E allora, rispetto a quelli che le parole le credono solo mezzi per la comunicazione dei bisogni materiali, si può dire che l’amante delle lingue è uno che fa attenzione alle parole, che le crede migliori di lui e perciò capaci di migliorarlo.

«Non mi piaceva fissare sulla pagina una versione. Sentivo che la scrittura serviva solo a legittimare l’imperfezione della resa, a fissare gli eventuali errori. Meglio affidare tutto alla mente. Lì la versione poteva migliorarsi, anzi, continuava a migliorarsi, il senso diventava parte della memoria, dissipandosi le vaghezze e riempiendosi i buchi». Oggi che è anche traduttore di professione e ha scritto un meraviglioso inno d’amore alla traduzione (Tradurre è un bacio), ha cambiato idea rispetto a quand’era uno studente liceale?

Non mi definirei traduttore di professione. Ho pubblicato, sì, diverse traduzioni di poesia, e penso molto al senso del tradurre. E non sto mai senza tradurre. A differenza dei traduttori professionisti, io traduco solo quello che scelgo io, solo quello che ha con me una qualche affinità. Oggi le traduzioni le scrivo, ecco la differenza principale. Tradurre oggi è per me, senz’altro, una delle forme della scrittura letteraria; della MIA scrittura letteraria.

 Il latino e il greco vengono spesso considerate lingue “morte”, ma lei nel libro afferma che questa definizione si basa su un pregiudizio, derivato da «un’errata concezione della vita delle lingue». Quanto ha contato il latino nello studio di altre lingue e nella sua formazione di traduttore? E ha riscontrato delle differenze tra imparare e tradurre una lingua antica e una lingua moderna?

Il latino che io pratico è quello letterario. È lingua scritta per definizione. Mi ha insegnato sicuramente a vedere la dimensione scritta anche delle lingue moderne che poi ho appreso e in cui ho anche vissuto buona parte della mia vita, come l’inglese e il francese. Per me, alla fine, non c’è nessuna differenza tra Tacito e Proust. Parlare le lingue è un’altra faccenda. Molti traduttori, si sa, non parlano o parlano a fatica le lingue che traducono. Non è assurdo: la scrittura è una dimensione a sé. È stile, quindi ricerca, costruzione, volontà di scoperta.

Che consiglio si sente di dare agli studenti divisi tra l’interesse per gli studi classici e le pressioni di una società sempre più orientata verso un’idea di “utilità pratica” degli studi? E a chi, forse ancor più coraggiosamente, decide di fare della traduzione il proprio mestiere?

Posso solo dire che gli studi classici, oltre alle conoscenze che danno, pongono quesiti fondamentali sulla vita umana, sulla storia, sulle società, sul linguaggio, sui sentimenti. Non c’è niente di pratico in questo. Ma neanche nello studio della biologia o della fisica c’è nulla di pratico. Il sapere non è mai pratico. Tecnologia e conoscenza (inclusa la scienza), non si possono confondere, considerare una cosa. O non si vede l’originalità nemmeno di un Einstein, e le profonde affinità che legano le ricerche degli umanisti e degli scienziati – fisici, chimici o biologi che siano. Il sapere è sempre immagine e visione prima che applicazione pratica, ed è retrospettivo, guarda verso le origini. Solo così può stabilire con qualche certezza la direzione del cammino che tutti– spirito, materia, universo – stiamo compiendo. Il traduttore non aderisce in fondo a un paradigma diverso da questo: ha di fronte un inizio, il testo da tradurre, e più in là un punto d’arrivo. Il paradigma qui, però, sembra capovolto: perché ignoto è il punto d’arrivo. La cautela, l’attenzione e l’impegno a capire, tuttavia, sono gli stessi dell’archeologo o del biologo che indaghino il percorso dell’umanità. Per questo mi piace pensarmi (anche) traduttore.

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