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Mi oppongo, vostro onore! (ovvero, perché non mi vergogno di tradurre bestseller)

Qualche giorno fa, parlando con una collega, ci siamo trovate immerse in una discussione vecchia come il cucco: la collega raccontava di un messaggio in cui si era imbattuta in non so quale social. Nel messaggio, un giovane aspirante traduttore sosteneva che fosse inutile cercare di diventare traduttori editoriali, perché tanto il mercato della traduzione è marcio e i libri importanti vengono assegnati sempre ai soliti noti. Ora, potremmo discutere per ore del buco nero di nonsense creato dalla sola idea di parlare di traduttori e notorietà nella stessa frase (come diceva l’argutacollega® in questione, già solo pensarci fa scoppiare il cervello), e potremmo parlare per ore anche dell’idea di un mercato editoriale non meritocratico che va avanti a raccomandazioni e spintarelle, manco fossimo tutti olgettine che aspirano a entrare in Mediaset. I due argomenti meriterebbero post dedicati, anche perché queste recriminazioni sono un po’ come l’uovo e la gallina: è nato prima il giovane traduttore che accusa i vecchi di monopolizzare il mercato o il vecchio che accusa il giovane di non riuscire a farsi strada e di prendersela con chi non c’entra nulla?

I libri importanti, la merda, i corgi

Ma non è di questo che voglio parlare oggi. Perché di quella frase mi ha colpito soprattutto l’accento messo da quel ragazzo sull’impossibilità di raggiungere i “libri importanti”.  Magari, sembrava sottintendere la sfuriata, è pure possibile tradurre quelli meno importanti,  ma che ce frega? I capolavori sono tutti presi, i romanzi profondissimi sono già assegnati, a noi ce rimane la merda (c’è chi l’apprezza, poi, oh).
Mi sono chiesta allora se sia veramente brutto o disdicevole o addirittura umiliante tradurre libri che non facciano arrivare l’autore a due passi dal Nobel, che non finiscano tra le mani di un intellettuale barbuto che li rileggerà per la sessantaseiesima volta con la pipa in bocca e i piedi poggiati su un Welsh corgi disteso davanti al caminetto.
Insomma, in due parole: noi che traduciamo libri “di consumo” siamo davvero traduttori di serie B? Dovremmo forse vergognarci di quello che facciamo?
Ovviamente non ce l’ho con quel ragazzo in particolare: una volta ero come lui. Anzi, ero proprio lui. Quando ho cominciato a tradurre non mi sono posta neanche il problema di voler tradurre libri importanti. Davo per scontato che sarebbe successo. Per me l’equazione era piuttosto semplice: traduttore editoriale uguale intellettuale uguale letterato uguale alta letteratura. Tutto il resto era robaccia buona per foderare la gabbietta dei criceti.

Il lavoro nobilita l’uomo (e la donna)

Poi, vedete, ho cominciato a lavorare. Ed è quando la traduzione smette di essere un mito e diventa un lavoro vero,forse, che la prospettiva cambia. Perché a quel punto mi hanno offerto un horror per ragazzi. E poi un romanzo d’amore. E un thriller. E infine quello che mi è più  caro, quello che guardo con più indulgenza (ma anche, sì, un po’ di bonario “ma che cazzo dici??”): il BESTSELLERONE. Il romanzo da ombrellone, il libro da mille milioni di copie vendute pure in Uganda che prevede intrighi e sparatorie, studiosi americani con la barba sfatta e cardinali corrotti che parlano con la bocca piena de salame, e che a un certo punto (non ve lo aspettereste mai proprio mai!) ci svela che IN VATICANO C’È UN TERRIBILE SEGRETO!!
Mi sono confrontata con la persona che ero  un tempo e mi sono chiesta se a oggi mi imbarazzi tradurre libri del genere.
La risposta ovviamente è no.  Al di là delle ovvie considerazioni sul fatto che tradurre non è una missione, è un lavoro, e che quindi a volte può piacerci e a volte ci piacerà meno (a qualcuno è toccato ritradurre il Mein Kampf, non sarò certo io a lamentarmi perché i protagonisti del mio romanzo passano intere giornate a guardarsi nelle palle degli occhi), la verità è che ritengo che chi  snobba i bestselleroni guardi al problema da una prospettiva sbagliata (e del resto, come dice un’altra argutacollega®, il vantaggio dei libri di ampio consumo è che a differenza dei capolavori sono tanti, come le bollette).

I libri che la gente legge davvero

Al giorno d’oggi per me la narrativa di consumo equivale ai telefilm americani, e nei telefilm americani c’è sempre un avvocato che dice una cosa che io trovo illuminante.
Quando l’avvocato in questione viene assunto per difendere un efferato serial killer coprofago, un politico palazzinaro e mafioso e anche un po’ pelato, o comunque qualcuno con cui lo spettatore non può simpatizzare, un altro personaggio gli chiede se non si vergogni a difendere un uomo (o una donna) del genere. Al che l’avvocato si spolvera i pelucchi dal bavero della giacca, si liscia i capelli foltissimi, si erge in tutta la sua possanza statunitense e tuona: “Questa è l’America! Anche i delinquenti hanno diritto a un processo equo! Se ce ne dimentichiamo la giustizia è morta!”.
Ecco, io mi sento, nei confronti dei bestselleroni, come quell’avvocato si sente nei confronti dei suoi assistiti.  Sono cioè convinta che anche i libri poracci abbiano diritto a una buona traduzione.
Anzi, a maggior ragione ne hanno diritto: questi sono i libri, come mi ricorda ogni tanto Chiara, che la gente legge davvero. Per ogni quasi-Nobel che entra nelle case dei lettori forti accoccolandosi tra pile e pile di amici libri-importanti, ci sono almeno una cinquantina di TERRIBILI SEGRETI IN VATICANO!! che entrano nelle case di gente che normalmente legge poco o non legge affatto.
Mi chiedo quindi se noi che traduciamo questi romanzi non abbiamo forse una responsabilità ancora più grande di chi traduce il Nobel: perché in fondo noi entriamo in moltissime case,  ed entrando nelle case e nelle teste di chi normalmente non legge granché possiamo essere lo strumento che porterà quelle persone a leggere ancora, a leggere di più (senza contare che questi libri sono i guilty pleasures di molti di noi, non solo lo sfogo del lettore debolissimo che ha rotto la TV).

Libro cattivo o buon prodotto?

E badate bene: non parlo qui di libri brutti, mal scritti, impossibili da tradurre (perché quelli ci sono e sono faticosissimi e lo sappiamo). No, io parlo di libri discreti ma fini a se stessi, libri che sono considerati brutti perché non sono profondi, perché (torniamo all’inizio) non sono importanti.
Sono anzi spesso buoni prodotti, ben confezionati: e forse noi traduttori ce ne allontaniamo disgustati proprio perché non ci piace pensare che non tutti i libri con cui lavoriamo sono messaggeri di un cambiamento epocale, portatori di illuminazione per bodhisattva da biblioteca: a volte sono solo, appunto, un prodotto ben confezionato. Forse ci sembra che ammetterlo renda il nostro lavoro meno nobile. Ma di nuovo: io non ci trovo niente di poco nobile nell’accompagnare un non lettore nel mondo della lettura,  se anche per farlo dobbiamo immergerci nei TERRIBILI SEGRETI DEL VATICANO!!.
Questo post, insomma, è per tutti i colleghi che difendono il serial killer coprofago e il palazzinaro pelato, che portano in libreria i femminili, i thrilleroni, i bestselleroni, i giallacci e tutte quelle cose volatili e belle che non sembrano abbastanza importanti a chi comincia a lavorare, ma che a me, invece, col senno di poi, sembrano importantissime.

Traduttori editoriali, 5 modi per aiutare la categoria

Che i traduttori facciano un lavoro importante è ormai cosa risaputa (o almeno lo è qui, dove la categoria gode di riconoscimento, apprezzamento e incensamenti continui e meritatissimi); e che senza i traduttori, nello specifico quelli editoriali, nessuno di noi sarebbe stato in grado di leggere e apprezzare i nostri libri stranieri preferiti, dalla saga dei Malaussène di Pennac ai classiconi come Anna Karenina, è ancora più ovvio.

Un’altra cosa che si sa è che, ahimé, per quanto indispensabile, la nostra categoria è spesso trascurata e bistrattata:il traduttore conduce un’ormai proverbiale vita agra di bianciardiana memoria, è sfruttato, sottopagato, cornuto e mazziato, è un cottimista dell’editoria e una creatura sempre in bilico tra carestia di stampo “Irlanda primi ‘900” e “bambino biafrano fine anni ‘80”.

Ma, sarà perché non ci piace piangerci addosso, qui non amiamo molto assecondare questa visione catastrofista e sciagurata delle cose: preferiamo, se possibile, fare ciò che possiamo per cambiarla. Quindi questa settimana abbiamo approfittato di alcune domande che ci sono arrivate da aspiranti colleghi per trovare risposta a una questione molto sentita: se è vero – com’è vero – che la vita, e il lavoro, dei traduttori editoriali sono tanto difficili e sventurati, cosa possiamo fare noi per migliorarli? Ovvero, esiste qualcosa che (da aspiranti traduttori editoriali, o da semplici lettori) possiamo fare per rendere la vita dei traduttori più facile e il mercato della traduzione editoriale più felice e proficuo sul lungo periodo? C’è un  modo per aiutare chi ci porta in casa i romanzi di Stephen King e la saga di Harry Potter, per fargli capire che il suo lavoro è per noi prezioso e per fare in modo che sempre più persone lo apprezzino e lo riconoscano?

Forse sì. O meglio, di cose ce ne sono venute in mente almeno cinque, ed eccole qui: se ci impegnassimo tutti a farne almeno una entro questa settimana, un sacco di traduttori riceverebbero una bella iniezione di autostima e un regalo di San Valentino anticipato:

1) Studiate il mercato e parlate solo se sapete di cosa state parlando
La prima raccomandazione è questa: semplicemente, informatevi. Il mondo dell’editoria non è esoterico quanto sembra a qualcuno, ma non è nemmeno elementare quanto sembra a qualcun altro. Ogni volta che un lettore rabbioso e sprovveduto stronca su Amazon una traduzione senza conoscere la lingua dell’originale o senza essersi preso la briga di controllare che la resa “legnosa e illeggibile” non corrispondesse in realtà a un originale già di suo legnoso e illeggibile, ogni volta che un aspirante traduttore si lamenta di non riuscire a entrare nel mercato rifiutandosi però di capire come funzioni davvero la filiera editoriale, ogni volta che un collega alle prime armi firma un contratto capestro aumentando il potere dei committenti truffaldini, una fatina muore. O se non altro, la categoria dei traduttori vive una battuta d’arresto che rende le sue condizioni di vita, e di lavoro, più complicate. Quindi, semplicemente, se volete aiutarci (e a maggior ragione se volete diventare anche voi un traduttore), studiate un pochino: noi, come molte altre realtà, siamo qui per aiutarvi. E per capire meglio come funzionano le cose, un passo alla volta e insieme.

2) Diffondete informazioni e siate costruttivi
Una volta che avete capito qualcosina di più, potete appuntarvi sul bavero la medaglia da Giovane Marmotta, e cominciare a diffondere il verbo. Lungi da noi chiedervi di trasformarvi in seguaci di Scientology o di assumere l’atteggiamento saccente dell’ex fumatore che ormai tormenta tutti con promesse di enfisemi fulminanti, ma di sicuro potete cominciare facendo una cosa buona e giusta: se qualcuno che conoscete dice una plateale baggianata, se un aspirante collega non sa dove trovare un’informazione indispensabile o è indeciso se firmare o meno un contratto contenente una clausola vessatoria, fatevi avanti. Con garbo e gentilezza, spiegate ciò che avete imparato, o fornite indicazioni utili su dove andare a cercare notizie più dettagliate: l’aspirante collega ve ne sarà grato, tutti saremo un po’ più consapevoli e il magico potere dei TraduttoriUniti© avrà sconfitto le tenebre dell’ignoranza una volta di più. Win-win-win, insomma.

3) Scrivete agli editori (nel bene e nel male)
Quante volte vi siete commossi leggendo un libro? Quante volte avete preso carta e penna (o tastiera e mouse) e avete scritto all’autore, o all’editore, complimentandovi per la pubblicazione di quel capolavoro? Bene, nella nostra opera di ricostruzione pro-traduttori è giunto il momento di farlo anche per chi quel libro ve l’ha portato in italiano. Se incontrate una traduzione particolarmente ben fatta, inviate una email all’editore e fategli i complimenti per aver scelto un bravo traduttore e avergli consentito di fare un buon lavoro. Se dopo sei volumi di una saga sentite che il traduttore è un po’ un vostro amico, ringraziatelo (sul vostro blog, o via email, o parlandone con gli amici o con vostra zia) per avervi regalato tante ore di pura gioia. Ovviamente anche la critica costruttiva fa bene alla categoria, non solo il complimento fine a se stesso: assicuratevi però che sia davvero doverosa, circostanziata, ben illustrata e non oziosa. Se scriverete a un editore per fargli notare una svista traduttiva o una strategia clamorosamente sbagliata, e se lo farete con tatto, vi sarà di sicuro riconoscente: se in un libro straordinario di 600 splendide pagine troverete un refuso e subito ne approfitterete per minacciare l’editore di bruciare il volume in un falò, all’unico scopo di fare il grammar nazi… ecco, be’, non fatelo. Risultereste simpatici come un’emorroide, e diciamoci la verità, chi aspira a una cosa simile?

4) Finanziate il nostro lavoro (se potete)
Se pensate che la più grossa sventura dei traduttori sia che non sono abbastanza pagati, avete ragione. E se volete aiutarci a cambiare le cose, partecipate alle nostre lotte (sindacali e non) per avere un maggior riconoscimento economico: firmate petizioni se vi capita di vederne, ospitate o scrivete articoli sull’argomento, fate in modo che quando esce un’intervista sul tema più persone possibile possano vederla, protestate vibratamente, magari addirittura boicottandoli, contro gli editori che sapete che non pagano a sufficienza i traduttori (e i collaboratori in genere). E se vi servite di un traduttore (anche non editoriale), pagatelo sempre il giusto. Riconoscete il valore di ciò che fa, e la sua straordinaria competenza lavorativa, nel modo più ovvio e banale che ci sia: con il corrispettivo in denaro che merita.

5) Fate i nomi!
La legge sul diritto d’autore obbliga chiunque nomini una traduzione italiana di un’opera scritta in un’altra lingua a citare il traduttore, esattamente come si cita l’autore e l’editore dell’opera stessa. Ahimé, quasi nessuno lo fa. Nemmeno nei giornali più famosi mancano i box e le recensioni in cui si riporta tutto di un libro (autore, editore, data di pubblicazione, numero di pagine, addirittura se la copertina è in brossura e rigida) tranne che la cosa forse più importante: il nome del traduttore, che quel libro lo ha reso accessibile al lettore italiano. Da oggi in poi, fatevi un punto d’onore di cambiare le cose: fate sempre i nomi dei traduttori dei libri di cui parlate, degli spezzoni di romanzo che riportate su Facebook, dei volumi che recensite sul vostro blog. E se qualcuno cita un libro, o un brano, tradotto in italiano, senza però dire che è l’autore della versione italiana, chiedete sempre, in un commento gentile e rispettoso: “Chi l’ha tradotto, questo, scusa?”. Farlo non cambierà le cose dall’oggi al domani, forse, ma possiamo garantirvi che il cuore di ogni traduttore che dovesse leggere quella domanda farebbe una capriola di gioia: e chi non vorrebbe far fare al cuore di qualcuno una capriola? Del resto, basta così poco…