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Perché lo spagnolo ha la punteggiatura invertita (e perché dovrebbe abbandonarla)

Tutti hanno notato che le domande e le esclamazioni sono precedute da segni come ¿ e ¡, un uso poco diffuso nel resto del mondo e del resto in calo nella stessa Spagna. Forse è tempo di voltare pagina

26 Settembre 2018 – 05:54

Non è l’unica lingua a farlo, ma quasi. Lo spagnolo ha, tra le sue regole, quella di mettere punti esclamativi e di domanda (ma rovesciati) anche all’inizio della frase. Una frase del tipo Come stai? Diventerebbe, in italiano, ¿Come stai?, con effetti un po’ disorientanti, ma nemmeno troppo.

La regola è antica: vennero consigliati dalla Real Academia Española nel 1754 nel suo prontuario di ortografia del castigliano, ma entrarono nell’uso dopo molto tempo. E, a dire la verità, non sembra che abbiano intenzione di resistere ancora a lungo: sono sempre di meno le situazioni in cui le persone rinunciano alla punteggiatura invertita, a partire dalle chat sui social.

L’idea originaria, poi, è stata tradita fin dall’inizio. Nel 1668 il filosofo inglese John Wilkins aveva proposto di usare il segno esclamativo invertito (questo: ¡) per le frasi ironiche – a quanto sembra, nemmeno all’epoca chi leggeva riusciva sempre a coglierla – ma il suo suggerimento rimase inascoltato. Gli spagnoli decisero, nemmeno fosse un linguaggio di programmazione, di riprenderlo e metterlo all’inizio di frase esclamativa. Così come il punto di domanda rovesciato sarebbe stato a inizio di frase interrogativa.

Secondo alcuni renderebbe più semplice la lettura (“Così capisco prima che è una domanda, o un’esclamazione”, dicono), ma la verità è che si tratta di un orpello inutile. Tutti i lettori del mondo sono in grado di capire il senso e l’intonazione di una frase senza avere una marca iniziale. Tanto è vero che oltre allo spagnolo usano questi segni solo lingue che hanno legami culturali con la Spagna: cioè il Galiziano (ma hanno cambiato anche loro), il Catalano (con alcune eccezioni) e il Waray (che parlano nelle Filippine).

E poi gli spagnoli stessi, a partire da alcuni sudamericani come Pablo Neruda, si stanno via via allontanando dall’uso. Perché il progresso, arrivato alla fine anche laggiù, è anche questo.

L’orrore quotidiano di chi conosce l’inglese

In quanto traduttore e specialmente insegnante di inglese, non sono mai mancati gli sguardi di ammirazione una volta appreso quale fosse il mio mestiere, da parte di amici, conoscenti e saltuari sconosciuti vari, ma una cosa li ha accomunati tutti: la frase ammirata che mai muta, nemmeno nelle virgole:

“Uh, come ti invidio! Piacerebbe un sacco anche a me saperlo così bene!”

Ovviamente detto sempre e comunque con quella punta di malinconia che dovrebbe farmi capire che proprio lo desidererebbero tanto, ma i loro gravosi impegni (che siano da dirigente, operaio o casalinga) li hanno sempre ostacolati nel conseguimento del tanto agognato obiettivo. Ovviamente i loro occhi diventano sognanti e per quei pochi secondi vedono loro stessi alla ribalta e alla conquista di tutto ciò che non hanno mai potuto fare, perché quello e soltanto quello è il motivo per cui sono così spesso ancorati sul divano a cibarsi di grande fratello.

Solo a quel punto mi lascio andare al più grande sorriso di circostanza di cui sia capace e mi abbandono anche io al mio solito: “beh, se ti interessa fai sempre in tempo a imparare”.

Quello è il preciso momento in cui il malcapitato interlocutore ha improvvisamente la più grande delle epifanie e, come colpito da un fulmine, realizza che nessuna lingua è un dono celeste e che forse per impararla serviranno dedizione, sforzi e soprattutto tempo.

Ma non è questo ciò fa venire i mancamenti a un insegnante.

La vera sfida la offrono coloro che credono di saperlo o che, più semplicemente, ripetono a pappagallo parole sentite da altri, perché ricordiamolo, se lo abbiamo sentito dire da qualcuno, allora deve essere giusto. È anche vero che esiste una aggravante che vale per molti: dire parole a caso in inglese fa sentire fighi, specialmente nelle aziende. Non a caso alcune delle mie lezioni nelle suddette aziende sono state interrotte da un capoufficio che sollecitava l’impiegata di turno a mandargli i forecast per il briefing del meeting sui nuovi trend (ovviamente pronunciando ogni parola esattamente come è scritta, tranne la più celebre meeting). Nella speranza di poter ottenere uno sporadico momento di consapevolezza o di autocritica, ho sempre cercato di ritagliarmi il tempo per spiegare che va bene se vogliono usare una parola inglese come forecast (anche se giuro che ne abbiamo una equivalente italiana), ma che almeno potrebbero sforzarsi a pronunciarla come si deve. /ˈfɔːˌkɑːst/

Nella maggior parte delle occasioni mi bastano un cavallo, un succo e una manciata di neve per scatenare il panico. Perché se soltanto ho l’ardore di dire loro che non si pronunciano ORS, JUIS e ZNOU, come hanno fatto per tanti anni, si affretteranno su di me gli sguardi di chi già mi considera pazzo. Per fortuna in mio soccorso arrivano siti e strumenti che spiegano o addirittura leggono la pronuncia, perché solo allora smetterò di essere accusato di presunzione e dovrò solo farmi strada tra “ma io l’ho sempre sentito dire così” e “la prof a scuola non ci ha mai corretto”.

La morale di tutto questo? Quando si tratta di parole inglesi (o per estensione di qualunque lingua straniera) abbiate il coraggio di dubitare, anche di quelle banalità che nella vita vi sono sempre sembrate certezze.

Autore dell’articolo:
Luca Franceschini
Insegnante/Traduttore EN>IT
Reggio Emilia